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Enzo Bettiza

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Enzo Bettiza

Vincenzo Bettiza (1927 – 2017), giornalista, scrittore e politico italiano.

Citazioni di Vincenzo Bettiza

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  • Già negli anni Trenta del secolo scorso la Dalmazia, lembo solare della Mitteleuropa, era stata una meta privilegiata del settembrino turismo d'élite.
    Ospitalità cosmopolita, con tavolozza gastronomica multietnica e speziata, in un susseguirsi di arcaiche città murate che nell'ora del crepuscolo evocavano allegorici squarci böckliniani; costa frastagliata, dirupi profondi, fiordi corsari, mare azzurrissimo tempestato d'isole lussureggianti di verzura e aromi mediterranei.
    Un "Paradiso terrestre" esaltato dal miscredente George Bernard Shaw [...]. La guerra oscurò da un giorno all'altro quel luminoso e appartato mondo di frontiera e lo desertificò. La morte e il dolore consumarono il primo terribile atto della loro opera distruttiva e fratricida. Si rivide l'ancestrale coltello balcanico saettare fra il viavai delle truppe d'occupazione, Spalato offrì in sacrificio le rovine romane agli Stukas tedeschi, cinquantaquattro furiosi quanto incomprensibili bombardamenti angloamericani fecero di Zara la Dresda dell'Adriatico; poi esodi in massa, crolli di secolari ditte commerciali, attentati terroristici, cadaveri appesi per la gola su arpioni di patiboli medievali, saccheggi, genocidii, memoricidii culturali nel retroterra morlacco e bosniaco completarono lo svuotamento dell'identità locale avviando un inarrestabile processo di mutazione antropologica della vecchia Dalmazia slavolatina.
    S'avverava come ineludibile profezia una triste sentenza di Niccolò Tommaseo. Quel filologo principe della lingua italiana, che da Firenze inviava alla madre a Sebenico lettere in serbo-croato, già un secolo prima s'era rivolto amaramente alla sua terra incompiuta e promiscua quasi rimproverandola: "Illiria perduta, patria viva non ha chi di te nacque!".[1]
  • Se ci fosse un Guinness inteso a premiare l'ingiustizia del destino, bisognerebbe assegnarlo a Egor Gaidar.[2]

La Stampa, 24 dicembre 1989

  • Dej era stato uno stalinista a suo modo onesto e coerente e, come capita sempre agli stalinisti, era stato al tempo stesso anche un fervido nazionalista.
  • Fra tutte le carriere dei capi comunisti nei vari Paesi dell'Est europeo dopo la guerra, quella di Nicolae Ceausescu era stata la più simile alla carriera silenziosa e tenebrosa di Stalin: cura ossessiva dell'apparato, lenta costruzione di un partito personale dentro l'involucro del partito ufficiale, nessuna esperienza internazionale, disprezzo per tutti i militanti intellettuali che non avevano combattuto la monarchia in patria ma avevano vagheggiato la Rivoluziona da Mosca o da Parigi.
  • [Sulla Securitate] Più che una polizia politica vera e propria, sarebbe diventata una sorta di esercito personale totalmente devoto al Capo supremo del partito e dello Stato: uno strumento di despotismo sanguinario che poteva trovare i suoi precedenti storici solo nell'Opricnina di Ivan il Terribile e nella Ghepeù di Stalin, con un tocco di sadismo fra balcanico e ottomano. Fors'anche con un tocco di Guardie di Ferro in più.
  • Piccolo, immobile, gli occhi piccolissimi concentrati su di me, scarno e avaro nelle risposte alle mie domande, Ceausescu ricordava in ogni suo tratto rudimentale, in ogni suo gesto prudente, l'originaria cupezza meridionale della terra contadina da cui proveniva. La evocava soprattutto nella bocca molle e informe, quasi priva della linea divisoria fra le due labbra: una sanguisuga casualmente incollata su un volto di cera.
  • La parabola di Ceausescu è stata, come si va dicendo oggi, quella di un non comunista? Oppure, per essere più esatti e più giusti, la parabola del comunismo è stata anche la parabola di Nicolae e di Elena Ceausescu?

Sul putsch di agosto, La Stampa, 22 agosto 1991

  • Il vero e grande vincitore che emerge da questo golpe abortito è Boris Eltsin, l'uomo che fino a poco tempo fa veniva deriso da tanti giornalisti occidentali, considerato come un avventuriero populista di secondo rango da tante Cancellerie europee, umuliato nelle anticamere dei primi ministri, maltrattato come un intruso anti-gorbacioviano dal Parlamento europeo.
  • C'è una sorta di catarsi biblica in questa indecorosa fine del bolscevismo russo rinnegato in pubblico, davanti alle masse e ai carri armati, dagli stessi figli che aveva nutrito nel proprio seno e che oggi rivendicano per i popoli dell'Unione Sovietica democrazia, libertà e soprattutto legalità.
  • Dopo decenni di continua altalena fra liberalizzazioni omeopatiche e repressioni feroci, il circolo vizioso di Lenin, che oggi dava con la mano destra quello che domani toglieva con la mano sinistra, si è spezzato per sempre. Alla timida e ambigua «nep» di Gorbaciov, che si muoveva ancora nella logica del ricatto leninista di cui il golpe o autogolpe è stato l'ultima testimonianza, potrà seguire ora la «nep» strategica a lunga gittata di Eltsin. Il gioco alla libertà non sarà più temporaneo ma permanente.

Teletrasmesso su Rai 3, 1999

  • [Su Vojislav Šešelj] È praticamente un neo-fascista serbo.
  • Arrivava l'esercito regolare, che era ancora a quel tempo (siamo appena nel '91 [...]) era ancora un esercito federale. C'erano ancora dei macedoni, anche degli albanesi, dei croati in questo esercito. [...] Dopo, [...] già cominciavano diserzioni, i vari soldati o croati o macedoni desideravano ritornare alle proprie case, alla propria regione, alla propria patria, [...] e l'esercito cominciava a serbizzarsi.
  • Una volta che l'esercito aveva conquistato i punti strategici, arrivavano le milizie paramilitari, le quali erano specializzate nella distruzione della società civile dei paesi dei villaggi occupati.
  • Sloveni, croati, macedoni e anche montenegrini [...] non volevano più stare in una Jugoslavia serbizzata, non volevano più fare parte di una camicia di forza che avrebbe avuto il nome ancora di Jugoslavia ma che [...] le stringhe di questa camicia sarebbero state tenute in mano dai militari, dai burocrati e dai ministri serbi.
  • Šešelj è stato molto onesto, duramente onesto. [...] Ha detto la verità: tutto era preparato a Belgrado.

La Stampa, 2 aprile 2000

  • La carriera repentina e strabiliante di Berezovskij era ed è, sotto ogni aspetto, personalissima e paradigmatica al tempo stesso. Un campione emblematico, per così dire, da sociologia postsovietica. Si riflette in esso non solo il talento di un giocatore d'azzardo fuori norma, non solo la tenebrosa fortuna di un nocchiero della neoimprenditoria corsara alla russa. Ma, quel che più conta, nella temerità inventiva dell'uomo e delle sue azioni si riverbera in presa quasi diretta la metamorfosi epocale dell'Urss dei piani quinquennali nella Russia dei mercati ebbri e scapestrati.
  • Più che una persona fisica, più che un nome odiato o temuto, Berezovskij è il simbolo e l'incarnazione di un caotico processo storico che ha visto la Russia passare in un baleno dalla non economia totalitaria all'ipertrofia di un capitalismo darwiniano con pochissime regole e pochi padroni.
  • Pioniere e prototipo della nomenclatura oligarchica postsovietica, Berezovskij non si è mai limitato alla sola cura dei suoi feudi imprenditoriali. Li ha sempre collegati e avviluppati nell'intrigo politico. Combinando clientelismo e affarismo è stato per qualche anno l'oscuro deus ex machina della cerchia più intima di Eltsin, ha tenuto in pugno consiglieri e amministratori della «Famiglia» come Voloshnin e Borodin, ha letteralmente distrutto con le sue santabarbare televisive l'immagine e le aspirazioni presidenziali di candidati temibili come l'ex primo ministro Primakov e il sindaco di Mosca Luzhkov. Alla fine ha coronato le operazioni facendosi eleggere deputato alla Duma, il che potrà assicurargli una salvacondotto per la tessitura di altre trame e, soprattutto, una garanzia d'immunità per i tempi procellosi che probabilmente dovrà affrontare nell'era Putin.

La Stampa, 13 gennaio 2002

  • Raramente a un capo di governo, perdipiù provvisorio, era toccata la malaugurata sorte di dover estrarre alla luce uno Stato e un paese da un baratro così smisurato.
  • [Sulla Repubblica Islamica dell'Afghanistan] Da un lato sono caduti, in parte, i burqua e i folli divieti fondamentalisti. Sono tornate la musica, la scuola, la radio, la stampa, la televisione. Sono ricomparsi gli aquiloni, gli animali domestici, persino i fiori che, secondo l'ortodossia punitiva dei mullah, rappresentavano una profanazione inflitta alla sacra tenebra senza odori e colori del loro Islam sadomasochista. È riesplosa la tifoseria negli stadi dove, per cinque anni, l'unico divertimento circense era stato il taglio in pubblico di braccia e teste d'infedeli.
  • Karzai e i suoi alleati e rivali del Nord hanno già consentito parecchio. Hanno dischiuso le scuole alle ragazze, il video alle annunciatrici, offerto addirittura a due donne i ministeri della Sanità e, per l'appunto, della «questione femminile». Di più, almeno per adesso, non avrebbero potuto fare. L'Afghanistan, dopo la tabula rasa, non si presenta come un'incipiente società civile, bensì come una variegata e conflittuale comunità interetnica e religiosa. In una simile comunità, tuttora pietrificata, a forte connotazione maschilista, la «questione femminile» è destinata a restare ancora secondaria rispetto ad urgenti priorità. Sicurezza, pace, pane, casa, guadagno, impiego pubblico, lotta all'inflazione, resurrezione del bazar per lo scambio di merci e i bisogni del consumo spicciolo.
  • Per Karzai, che fra l'altro ha sei fratelli arricchiti e sparpagliati da Los Angeles a New York, l'appoggio dell'America è un onore e un onere. Alleati insostituibili, per la copertura militare che garantiscono, gli americani sono nello stesso momento per lui alleati compromettenti sul piano politico e soprattutto psicologico. L'imbarazzo aumenta di giorno in giorno.
  • È davvero vizioso il girone in cui si trova immerso fino al collo, come se la cosa non lo riguardasse, il calmo e all'apparenza imperturbabile primo ministro. Tuttavia, nonostante questa sua proverbiale impassibilità, nonostante i suoi modi aristocratici e distaccati, la voce sommessa, i mezzi sorrisi lontani e un po' mesti, due connotati segnalano l'usura di un'esistenza perigliosa e la tensione permanente e logorante: 45 anni che paiono prossimi alla sessantina, e un lievissimo, quasi impercettibile tic alla palpebra tremolante dell'occhio sinistro. Per il resto, un leader nato, un negoziatore implacabile, un interlocutore civilissimo ma freddo, sostenuto da nervi impastati d'acciaio e di gomma.
  • Osama, che costernato ha visto le popolazioni afghane ripudiarlo e maledirlo, non aveva afferrato che l'etnicità in Afghanistan prevale sempre sulla comune appartenenza religiosa all'Islam. Non aveva neppure capito che è stato l'orgoglio etnico offeso, assai più della confessione musulmana, a muovere le differenti tribù nella guerriglia contro i russi e, vent'anni dopo, nell'offensiva finale contro i mullah di Omar e i terroristi di Al Qaeda. È nell'etnicità la molla del composito mosaico guerriero degli afghani. Mosaico suddiviso e ramificato in un labirinto di tessere, incastri sovrapposti, pioli cromosomici e linguistici che dal basso salgono via via verso l'alto: dalla radice familiare al sottoclan, poi al clan, quindi alla tribù, infine dalla tribù all'epitome dell'etnica che si confonde tout-court con la nazionalità.

La Stampa, 9 gennaio 2005

  • Sembra ieri e sembra mai. Era il 25 dicembre 1989. Sei mesi prima era crollato il Muro di Berlino, ma la vera esecuzione punitiva del comunismo verrà crudamente trasmessa in diretta da Bucarest la sera di Natale di quel fatidico Ottantanove. Sarà nel microcosmo staliniano e bizantino della Romania «socialista», dove il Natale era un giorno lavorativo come gli altri, che si spezzerà in maniera drastica, visibile, emblematica, l'anello più patologico nella catena dei comunismi europei. Per molti aspetti anche shakespeariani non sarà a Berlino, né a Varsavia né a Mosca, ma nelle periferica Bucarest, che la tragica quanto fulminea fucilazione di Nicolae ed Elena Ceausescu imprimerà il sigillo definitivo sul «secolo breve».
  • «La Romania farà da sé». Al tempo della guerra fredda quello slogan indipendentistico faceva notizia e attirava l'attenzione dei giornalisti e commentatori occidentali. Ma per lasciarsi le porte aperte nella roccaforte autonomista di Bucarest bisognava agire con molta prudenza. Se si desiderava curare e prolungare un rapporto giornalistico con i dittatori Nicolae ed Elena, che formavano una persona sola, bisognava limitarsi strettamente alla grande diplomazia e alla macroeconomia: niente indiscrezioni dettagliate sulla loro megalomania urbanistica, il terrorismo onnipresente della Sicuritate, il nepotismo corrotto della corte, le depravate e alcoliche prodezze dell'erede al trono Nicu. In altre parole, nei colloqui con il tiranno, impegnato a spiegarvi le linee maestre della politica internazionale e industriale romena, si doveva lasciare da parte ogni domanda troppo diretta sui costumi frustrati e il misero tenore di vita del popolo romeno. La Romania doveva diventare così, per me e altri colleghi, un vero e proprio pozzo del «non detto». Un deposito senza fondo di appunti autocensurati.
  • Fra tutte le carriere dei capi comunisti, nell'Est europeo dopo il 1945, quella dell'ex calzolaio del meridione romeno era stata la più simile alla carriera taciturna e obliqua di Stalin. La ricetta era infatti prettamente staliniana: diuturna cura burocratica della base incolta, lenta costruzione di un nucleo di potere personale dentro l'involucro del partito ufficiale, disprezzo vendicativo per gli intellettuali di sinistra che, fuggiti dalla Romania, erano andati a vagheggiare la rivoluzione mondiale all'estero.
  • [Sulla Securitate] Fu qualcosa di più complesso e più implacabile di una semplice polizia politica. Fu uno Stato nello Stato. Un vero esercito del terrore, inesorabilmente devoto alle persone, alle volontà e ai capricci dei due capi supremi.
  • Minuto, immobile, gli occhi piccolissimi concentrati sul pavimento, scarno e cauto come un coyote nelle risposte, Ceausescu ricordava in ogni suo tratto, in ogni suo gesto impercettibile, l'originaria cupezza della contrada natìa. La evocava non solo nella tinta levantina dell'incarnato. Sembrava, non so come, evocarla soprattutto nella bocca molle e informe, quasi priva della linea divisoria fra le due labbra: una sanguisuga incollata su un volto di cera olivastra.
  • [Su Elena Ceaușescu] La satrapessa blasonata con centinaia di falsi diplomi e titoli di studio, che non sapeva neppure leggere la formula dell'acido solforico, ma che era però l'inappagabile Lady Macbeth e l'anima nera del satrapo.

Dall'intervista di Aldo Cazzullo

Corriere della sera, 12 maggio 2009

  • [Bettino Craxi] La DC per lui era l'espediente tattico. Una sinistra unita e socialdemocratica era l'ambizioso disegno strategico della sua vita.
  • [Nicolae Ceaușescu] Aveva fama di eretico, ma era diversissimo da Tito. Era il più staliniano dei tiranni comunisti balcanici. Umili origini. In sintonia con le radici della sua terra, l'Oltenia, landa di foreste oscure e di atrocità ottomane.
  • Boris Nikolaievic è sottovalutato. In realtà è un gigante del Novecento. Ci voleva un essere biologicamente anomalo, eccessivo, forte bevitore, molto carnale, più adatto a distruggere che il costruire, per abbattere il corpaccione del comunismo sovietico.
  • Il comunismo è morto di comunismo. Il moloch ha divorato se stesso.
  • Il vero modernizzatore del comunismo postmaoista è stato Deng. E conservo tre telegrammi di felicitazioni giunti da New York e firmati Oriana Fallaci.

Da La profezia dello Scià

La Stampa, 26 giugno 2009

  • Mi ritorna di riflesso in mente l’atmosfera d’insoddisfazione e di protesta che serpeggiava per la capitale iraniana negli ultimi giorni del potere, ormai scalfito e usurato, di Shahanshah Aryamehr Mohammad Reza Pahlavi. Pure lui, con il suo realismo ingegneristico e poliziesco, come dopo di lui gli ayatollah e i pasdaran, pensava che la forza d’urto e di ricatto del petrolio avrebbe potuto sanare i molti mali del regno che la politica, da sola, non riusciva a risolvere. Pure lui appariva in ritardo sulle esigenze e le aspettative di costituzionalità, di modernità democratica, che gl’indirizzavano i ceti istruiti ed evoluti di una società mediorientale tutt’altro che primitiva. Riteneva di poter mettere le cose a posto con una megalomaniaca e stonata combinazione di elementi disparati, a cui concorrevano, sul piano ideologico, il pugno di ferro di un kemalismo di riporto, poi sul piano d’immagine un classicismo anch’esso di riporto, imperniato in funzione antireligiosa sul mito di Ciro il Grande, infine sul piano della potenza una polizia segreta spietata e un esercito alimentato dai ricavi del petrolio.
  • Altro che Ciro, Dario, Serse. Erede vulnerabile di un usurpatore forestiero privo di scrupoli e di religione, seduto sul Trono del Pavone vagheggiando di congiungere gli oleodotti dell’Iran energetico al glorioso impero di Persepoli, egli ignorava quasi tutto dell’atavica anima islamica e sciita dell’Iran. Conosceva il calcolo infinitesimale, la chimica, la merceologia industriale, le lingue occidentali, ma non capiva i bottegai del bazar musulmano, che a loro volta non capivano il despota orientale che si dava le arie dell’ingegnere petrolifero.

Da Novecento, il secolo del Male ancora in cerca di scrittori forti

Corriere della Sera, 2 aprile 2010

  • Dobbiamo cercare di capire, ed esprimere, il perché alle domande fondamentali poste dal Novecento siano state date risposte così disastrose. Il fallimento di quell'impulso, di quella fede totalitaria sarà stato anche titanico, a tratti superomistico, quasi più nietzschiano che marxiano, ma ha pur sempre portato con sé risposte criminali e nichilistiche.
  • Ho l'impressione che la grande storia dia fastidio a chi vuol raccontare solo storie minori. Costoro si levano a stento il cappello per Svevo, mentre Saba e Marin, Giotti, Slataper e Michelstaedter, e più in là, nel Veneto occidentale il grande, ignorato e frainteso Piovene, sono dimenticati. Ma io preferisco restare con loro. Della noia e dell'ammirazione stupefatta per quel Cagliostro militarizzato della letteratura che fu d'Annunzio (Italia novecentesca al cubo) oggi non mi resta che la noia. Fiume meritava più navi e commerci che puttanieri in stivali e "alalà".
  • La caccia alla totalità, nella letteratura cui apparteniamo, porta necessariamente all'incompiutezza. A differenza dello scrittore italiano, quello di frontiera è adatto a travalicare i confini e rompere le chiusure, favorendo il travaso di un secolo, il Novecento, solo apparentemente concluso. Le cinquecento pagine del mio Fantasma di Trieste, le duemilasette dei Fantasmi di Mosca sono la testimonianza di questa mia ricerca della totalità. Non per titanismo o superomismo, sia ben chiaro. Ma perché altrimenti, secondo me, non si possono più scrivere romanzi seri e credibili. Devono confluirvi vari elementi e generi contrastanti, come la narrazione, la filosofia politica, anche certe forme di giornalismo: nel tentativo di ricreare, dopo l'antiromanzo, il post-romanzo.
  • La letteratura italiana continua a girare attorno ai soliti tre o quattro nomi: Calvino, Gadda, Pavese... Poi viene soltanto una modesta scuola postmoderna nella quale non mi riconosco; un relativismo che finisce per dissolvere l'idea stessa del male. E diciamo la verità, questo vale anche per una certa letteratura americana à la page... non certo Faulkner o Bellow.
  • Vogliamo essere europei di lingua italiana, piuttosto che italiani di lingua toscana.
  • Leggo volentieri Sgorlon, apprezzo Vargas Llosa, non esagero negli abbracci ecumenici. E ammiro il coraggio di Littell, un ebreo americano che scrive in ottimo francese per incarnarsi in uno sfaccettato criminale nazista tedesco.
  • Il Novecento, definito da Hobsbawn "secolo breve", si sta invece rivelando lungo, lunghissimo. Stermini, esodi, carestie, guerre regionali infinite, malattie e miracoli inauditi: non si può costringerlo nella camicia di forza della brevità, facendolo coincidere quasi al millimetro con la durata del comunismo reale. Il secolo passato si è innestato su quello attuale, senza soluzioni di continuità. Ecco perché il nichilismo dolce e pigro di questi anni zero del XXI secolo non può esprimerlo, se non stancamente.

Da E Bettiza confessò: voto Lega L'eredità asburgica è sua

Corriere della Sera, 26 aprile 2010

  • Berlusconi durerà. Non so se realizzerà il sogno di salire al Quirinale eletto dal popolo. Ma durerà, perché non c'è nessuno nel partito pronto a sostituirlo. Non vedo elezioni anticipate: tutti hanno paura, molti anche di perdere l' indennità. Non vedo grandi prospettive neppure per Fini, uomo di partito rimasto senza partito: resterà nel Pdl solo perché non ne ha un altro.
  • Bossi ha un grandissimo fiuto politico. Sa bene dove va il boccino e fin dove lo può spingere. Non è certo lui che aizza Berlusconi, anzi, quando lui esagera con la sua attitudine megalomanica è Bossi a tirarlo per la manica, a esercitare una pressione sedativa. È evidente che il dopo-Cavaliere è la Lega.
  • Detesto la parola "territorio", mi fa venire in mente la mafia. Non esistono partiti territoriali né partiti cosmici.
  • Se sogno la mia balia Mare, sogno in serbocroato. Se sogno le Poljakove, madre e figlia, che mi ospitarono a Mosca quando Giulio De Benedetti mi licenziò dalla Stampa e mi tolse casa, sogno in russo. Se sogno Simone Veil, cui fui molto vicino all' Europarlamento, sogno in francese. Ma se sogno mio padre, sogno in dialetto veneto.

La Stampa, 5 ottobre 2011

  • Questa sorta di riviviscenza o di «copia e incolla», con espedienti e finzioni interdoganali, di uno spazio storico dissolto dai crolli comunisti suggerisce il dubbio che il premier Putin stia cercando di surrogare l’Unione Sovietica pesante d’una volta con una sorta di «Urss leggera»: non più basata sull’ideologia delle tonnellate, sul mito e l’incubo dell’acciaio, bensì sugli oleodotti energetici, gli investimenti stranieri, la mobilità del lavoro, il benessere anziché la miseria e spesso la quasi schiavitù degli operai. Sarà.
  • Fino a ieri molti credevano che il presidente Dmitry Medvedev, dimissionario in anticipo sui tempi legislativi, non fosse un fantoccio nelle mani del suo mèntore e padrone. Lo si dipingeva come un liberale in salita, uomo di riforme, in procinto di emanciparsi dal suo principe elettore e, in certi casi, perfino di opporglisi. Solo chiacchiere.
  • Oggi il volto sorridente e rassicurante del presidente Medvedev ci appare simile alla faccia intensamente dipinta di una matrioska che al proprio interno conteneva da sempre, fin dall’inizio, dal 2008, la grinta gelida dello zar autentico di tutte le Russie.

Da La rivolta siriana, Assad l’assassino tollerato

La Stampa, 18 marzo 2012

  • Il carnefice Bashar al Assad, epigono minore del defunto presidente Hafiz, ma altrettanto determinato nell' uso della più ignobile spietatezza, sta infliggendo gli ultimi colpi agli oppositori ormai praticamente inermi e abbandonati a se stessi.
  • La Siria è nel mezzo di un crocevia colmo di tensioni, di contrasti e interessi d’ogni genere. È coinvolta da sempre nei torbidi intrighi libanesi, è nemica storica di Israele, è protettrice degli sciiti di Hezbollah ma diffidente dei palestinesi, è ostile alla Turchia e incerta sulle relazioni con il nuovo Iraq dopo la scomparsa dell’odiato Saddam Hussein. Inoltre è legata alla Russia e alla Cina, che seguitano a proteggerla, e resta al tempo stesso attentissima ai consigli politici e all’influsso religioso dell’Iran, laboratorio nucleare in chiave di monopolio sciita. Il codice, che le grandi potenze rispettano e praticano in politica estera, s’ispira in genere al realismo e al calcolo dei possibili passi falsi: interferire nel caos siriano sarebbe stato, per i più, come infilare la mano fra gli esplosivi di una santabarbara mediorientale.
    Ecco perché gli americani, e i loro più stretti alleati, hanno deciso che la cosa migliore era non fare nulla sul piano militare affidando alle sanzioni economiche e al gelo diplomatico il ruolo punitivo, ma non distruttivo, nei confronti di Bashar al Assad.
  • L'ultimo degli Assad, che con il collo lungo da rettile raggiunge l'altezza di un metro e novanta, ricordando la figura del padre riflessa da uno specchio deformante, è diventato così un assassino tollerato e quasi intoccabile.

Intervista di Aldo Cazzullo, Corriere della Sera, 18 dicembre 2016

  • Montanelli disprezzava la borghesia che difendeva, e ammirava i comunisti che attaccava. Era convinto che la rivolta di Budapest si dovesse a operai che volevano il vero socialismo; mentre fu una rivolta nazionalista e antisovietica. 
  • Vivevo di espedienti. Sono stato contrabbandiere, venditore di libri a rate, giocatore di poker.
  • [Eugenio Montale] Gradevole, ironico. Pacato fustigatore di chi non amava. Cioè quasi tutto il resto dell'umanità.
  • [Giorgio Bocca] Giornalista d'istinto. Capace di rendersi simpatico e antipatico. Lo incontrai a Macao, lo portai in giro, lo aiutai. Il giorno dopo lessi nel suo articolo: "C'è qui anche il decadente Bettiza..."
  • Andai a parlargli [Enrico Berlinguer] alle Botteghe Oscure dopo la primavera di Praga. Era una delle prime volte che il Corriere dava spazio a un leader del Pci. Stavo al Raphael, l'hotel di Craxi. Berlinguer volle riaccompagnarmi sulla sua 500. Guidò lui. Era molto diverso da Togliatti.
  • Tito era uomo della Mitteleuropa. Figlio naturale di un aristocratico, adorava le operette viennesi. Aveva sposato una morlaccona piacente, Jovanka. Lo incontrai a Brioni, l'isola dove viveva tra giraffe, struzzi, elefanti. Ceausescu era un vampiro transilvano. Lo vidi tre volte, c'era anche il vero capo della Romania: sua moglie Elena. Un'erinni dagli occhi puntuti.
  • [Su Nikita Sergeevič Chruščёv] Un contadino ucraino che giocò il sopravvalutato Kennedy. Gli eresse il Muro sotto il naso ed evitò la guerra nucleare, nonostante Castro la sollecitasse: era pronto a vedere distrutta Cuba pur di distruggere l'America.
  • Ma conosco la teoria dell'antimateria: da qualche parte potrebbe esserci un mio doppio. Come se noi fossimo le copie di noi stessi, in un altro luogo, in un altro spazio.

Esilio

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  • Il ripudio di tutto ciò che sa di monocultura, di etnocentrismo sciovinistico, è stato in me, oltreché costante, anche precoce e spontaneo. Fin dalla prima età della ragione io avevo istintivamente detestato qualsiasi forma e manifestazione di nevrosi nazionalistica. Avevo sempre resistito, proprio perché circondato dai loro canti seduttivi, alle varie sirene fomentatrici di odio e di fanatismo razzistico. Da solo, senza leggere Grillparzer, avevo intuito che c'era un nesso fatale e losco fra nazionalità e bestialità. La mia fluida psicologia di confine, il mio carattere attirato dall'ubiquità, il mio stesso bilinguismo, mentale nonché orale, mi avevano fin da bambino predisposto all'assorbimento naturale di influenze diverse e contrastanti.
  • L'esilio prolungato nello spazio e nel tempo, esilio senza ritorno, aggravato dal vagabondaggio dispersivo in altri mondi, possiede una rara quanto perforante facoltà distruttiva: lentamente carbonizza tutto ciò che siamo stati altrove, recide i vincoli di sangue, spegne i ricordi, fa impercettibilmente tabula rasa del passato. (p. 18)
  • [Tra Serbia e Montenegro] S'è formata nei secoli, più che un'intimità profonda, una sorta d'osmosi metastorica. La comune lingua e religione ortodossa, il comune alfabeto cirillico, la comune mitologia guerresca, esaltata dalla lunga fraternità d'armi contro i turchi e gli austriaci e, infine, le comuni speranze messianiche riposte nel grande protettore russo, hanno finito per conferire ai due popoli una singolare identità gemellare. (p. 28)
  • La mamma, anche se conosceva piuttosto bene il veneziano coloniale, preferiva parlare con i figli in serbocroato; il papà invece, anche se, avendo fatto le "reali" croate, conosceva e scriveva alla perfezione il serbocroato, preferiva usare con noi l'antico dialetto locale di derivazione veneta. Genitori dunque molto simili, perfino nella loro duplicità e intercambiabilità fonetica, alla lingua bifida, imbastardita, quasi esperantesca, che adoperavamo nei nostri giochi e nelle nostre chiacchiere infantili. Confusamente intuivamo di non essere né italiani né slavi completi. (p. 49)
  • [La guerra in Jugoslavia] È l'ultimo stadio di un comunismo senile che, raschiato il barile, cerca di procurarsi una seconda, orrenda giovinezza con gli estrogeni mefistofelici del nazionalsocialismo [...]. Insomma: la sindrome di Faust che rivive in forma criminale e rozza, subideologica, non più metafisica, nel corpo di un comunismo svuotato da un ininterrotto sperimentalismo e approdato infine alla sterile impotenza della senilità. (p. 145)
  • [Zara, oggi] Il fantasma di se stessa: uno squallido e cariato borgo periferico dell'Adriatico orientale, fino a ieri strozzato dall'assedio dei serbi in armi della limitrofa Krajina morlacca. (p. 146)
  • [Spalato, oggi] La millenaria, suggestiva personalità archeologica [...] è stata deturpata dall'escrescenza di bituminosi e orrendi grattacieli di tipo brasiliano; pure la sua originalità umana, la sua vivacità culturale e cosmopolita, sono state sommerse e cancellate da una vera e propria eruzione di plebi semibarbare, calate con la dirompente violenza della lava dalle montagne dinariche. Basti dire che nel 1945 io avevo lasciato una città di appena quarantamila abitanti, diventati oggi, non certo per spinta demografica endogena, duecentocinquantamila. (p. 147)
  • Segnato da iniziali influssi serbi nell'infanzia, poi italiani nella pubertà, quindi croati nell'adolescenza, ai quali dovevano aggiungersi più tardi innesti germanici e russi, ho lasciato concrescere poco per volta in me multiformi radici culturali europee; non ho mai dato molto spazio alla crescita di una specifica radice nazionale. (p. 286)

Via Solferino

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  • Non v'era alcun nesso fra la lezione anglosassone e il giornalismo di denuncia, quasi scandalistico, che Ottone, con innegabile invettiva, confezionava quotidianamente. Egli, che diceva di credere meno ai commenti che ai fatti, finiva col fare, poi, il giornale più commentato che si fosse mai visto. Il commento filtrava da ogni parte, anche dalle notizie apparentemente più innocue. L'ideologismo goscista, favorito dall'autogestione redazionale, impregnava a tal punto il notiziario, il titolo, il taglio dell'articolo, da conferire un tono pedagogico e saccente perfino alle informazioni dello sport e della cronaca. Avveniva un rovesciamento paradossale. Il conclamato pragmatismo, la retorica del fatto per il fatto, applicati unidimensionalmente da un direttore complice di una padrona e di una redazione sempre più stregate dal caos italiano, sfociavano, alla fine, in una forma di esasperato giornalismo ideologico: la negazione anziché l'imitazione del Times. (p. 122)
  • L'Italia e il mondo che avevano preso a specchiarsi nel Corriere [...] evocavano una specie d'immenso Nordeste brasiliano brulicante di favelas, di derelitti, di colerosi, di handicappati, di drogati, di criminali, le cui disgrazie, sociologizzate, venivano attribuite tutte a un unico mostro dai contorni indefiniti: il sistema. L'intera umanità occidentale vi appariva retrocessa alla corte dei miracoli della prima industrializzazione manchesteriana. (p. 130)
  • Dalle inchieste che Ottone concordava coi redattori più arrabbiati e più pietosi veniva fuori un cupo affresco medievale. I treni non erano più treni, ma "veicoli per deportati". Le stazioni non erano più stazioni ma "bolge dantesche". Il colera del napoletano non era più una malattia, ma "la fase acuta che mette in risalto il male cronico della nostra società". L'industria non era più l'industria, ma un moloch avido di carne umana che «continua a ferire e uccidere l'operaio». Il sistema capitalistico veniva raffigurato come la metafora del sistema tout court e bollato col marchio di «istigazione a delinquere». Il mondo del lavoro appariva un vivaio di microbi portatori di «paralisi flaccida, silicosi, polinevrite, asbestosi, saturnismo». I delinquenti non erano più tali, perché vittime della società, mentre quelli veri indossavano «il camice bianco negli ospedali psichiatrici», oppure dirigevano «da una poltrona di velluto rosso i desperados della lupara». Altri ancora, dai loro grattacieli in vetrocemento, erano puntigliosamente intenti ad «avvelenare l'aria, l'acqua, il cibo». L'Italia appariva come inghiottita da un cataclisma di dimensioni apocalittiche. (pp. 130-131)
  • In un Corriere che, scavalcando spesso a sinistra l'Unità, diffondeva una simile visione allucinata e misoneistica del mondo, lo spazio per un giornalismo ragionato, privo di ubbìe e d'infantilismi ideologizzanti, andava riducendosi ogni giorno di più. (p. 131)

Note

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  1. Da Dalmazia, paradiso perduto, La Stampa; riportato in anvgd.it.
  2. Citato in Egor Gaidar la rivoluzione incompiuta, La Stampa, 29 dicembre 1992.

Voci correlate

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Bibliografia

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  • Enzo Bettizza, Esilio, Mondadori, Milano, 1996. ISBN 88-04-39783-7
  • Enzo Bettizza, Via Solferino. La vita del "Corriere della Sera" dal 1964 al 1974, Mondadori, Milano, 1999 (1982). ISBN 88-04-46402-X

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