«Necessari, indispensabili, inevitabili: questo è il marchio dei libri di Bernhard. » (Ingeborg Bachmann)
«Nella narrativa di Thomas Bernhard c'è un gesto iniziale e determinante che sostiene la scansione ossessiva, maniacale dello stile e indica direttamente lo sfondo su cui si proietta la costellazione pressoché fissa delle sue figure. Considerare di poco conto questo gesto significherebbe non cogliere un nucleo essenziale che determina, in un rapporto che è insieme di aderenza e di rifiuto, la sostanza dell'opera anche al di là dei fini espliciti del suo accanimento.» (Eugenio Bernardi, Postfazione a Perturbamento, 1981)
1958In hora mortis (In Hora Mortis, poesia); tr. e nota di Luigi Reitani (Milano: SE, 2002):
« Prima di affermarsi come prosatore e drammaturgo, Thomas Bernhard esordì in qualità di poeta, pubblicando cinque volumi in versi strettamente legati a un bisogno giovanile e autobiografico di «sublimazione psicologica» e fortemente connessi al clima della lirica austriaca degli anni cinquanta. In hora mortis è il suo secondo libro di poesia, dato alle stampe per la prima volta nel 1958 e in seguito riproposto dallo stesso autore, nonostante avesse ormai trovato nella narrativa e nel teatro i generi più adeguati alla piena manifestazione del suo talento. Relegati come «fase preliminare dell'attività letteraria di Berhard», i suoi versi meritano tuttavia un’attenta lettura per la loro forza espressiva, la componente musicale, l’espressionismo formale e visivo che, sebbene rientrino spesso in stilemi tradizionali – probabile testimonianza di una fase di ricerca – mantengono tuttavia la loro originalità e rivelano già i primi segni del genio. In hora mortis si rifà alla tradizione degli Sterbebüchlein, «quella letteratura religiosa rivolta a insegnare l’ars morendi […] che – spiega Luigi Reitani nel breve e accuratissimo saggio conclusivo – diffusa in tutta Europa fin dal tardo medioevo, aveva trovato il suo apice nel mistico francese Johannes Gerson (1363-1429)». Gli Sterbebüchlein avevano il compito di preparare spiritualmente l’uomo, con raccoglimento e preghiera, al momento della morte, ossia all’incontro con Dio, apice dell’esperienza dell’anima. Questa preparazione si svolgeva secondo quattro gradini, trattati nelle quattro parti in cui i testi erano suddivisi – exortationes, interrogationes, orationes e observationes – e fondamentali per comprendere la struttura quadripartita del poemetto di Bernhard.
Nella prima sezione l’invocazione incessante di Dio – costante dell’intera opera, tanto da darle un impianto salmodiale – si unisce all’espressione bruciante e incontenibile del proprio dolore, fiore costantemente nutrito da un malessere esistenziale che sboccia nell’ira «che nel cielo affonda». Il tormento personale si carica delle pene del mondo e dello stesso Dio, al quale sembra stringerlo un rapporto ambivalente di amore, identificazione e rabbia. L’impotenza alla quale si sente abbandonato («come l’albero nell’inverno / che mi travolge nel silenzio / mio verbo mia felicità mio pianto») lo lascia disorientato nella più completa solitudine, «alla mercé degli uccelli / del battito dell’orologio crepitante», agli albori di una notte immensa che presto lo travolgerà.
La seconda sezione approfondisce, nell’apprestarsi dell’hora, il processo di disintegrazione totale dell’io lirico in Dio: invoca il proprio annientamento perché Egli non lo abbandoni, perché solo allora la Sua voce può diventare la propria. La morte è attesa come liberazione e allo stesso tempo come paura e preghiera. Nella terza sezione il poeta sembra aver ormai raggiunto uno spazio fuori dal tempo, lontano dalla «necessità dei sogni», lì dove è necessario che resti sveglio per guardare in faccia la propria morte, ormai accettata e assunta come la soluzione finale del proprio essere in Dio.
L’ultima parte è lontana da ogni angoscia e può risolversi nella lode di quel Signore che lo accompagnerà «per quanto duri il tempo», lontano da un mondo che vuole dimenticare e dal quale vuole essere dimenticato. Eppure l’ultima sequenza si chiude con un’esclamazione di strazio reiterata, nel segno di un dolore incancellabile, annunciato dalla visione degli uccelli che Reitani interpreta come tributo alla poesia di Georg Trakl.[1] I segni di una natura espressionisticamente ritratta accompagnano in effetti tutto il poema, incarnazione distorta e inquieta del dolore esistenziale dell’uomo, prima fra tutte una luna scura e soffocante, «densa e grave» come quella dell’epigrafe leonardesca.
Il linguaggio biblico e metaforico arricchisce una partitura retoricamente molto curata, dalla musicalità spezzata e violenta, esito di una ricerca espressiva che, nonostante alcune ingenuità poetiche, non tarderà a dare i suoi frutti nell’opera matura di Bernhard. Una lode particolare all’edizione SE che, oltre a riportare l’utile testo a fronte, completa il volume con una biografia approfondita del grande scrittore austriaco e materiale fotografico. » (Giuliana Altamura)
ALCUNE POESIE DI BERNHARD:
La tua voce
Il mio bisnonno
Il mattino porta un grosso sacco
Sono stanco...
La tua voce sarà la mia voce
nell’amarezza la Tua voce che sparge il morire in rigidi solchi che mi distrugge Signore la mia preghiera crea dalla notte e dal timore il sole la luna la Tua voce è la mia voce Signore sono in te schiacciato nel mio tormento che mi infiamma gli occhi perché bruci il mio Dio nel fuoco della Tua ira che spinge il suo aculeo nel mio cervello di sangue.
Signore lasciami dimenticare la mia anima e il tormento degli occhi e il pugnale di stanche labbra e il fuoco verde di lontane capanne la bocca di ogni stagno dimenticare Signore mio Dio il giorno che mi ha squarciato il grido che gridai e il corteo dei molti uccelli è in pezzi la mia ira e libero il mio sangue in fiumi.
Il mio bisnonno commerciava in strutto
e ancora oggi
lo conoscono tutti
tra Henndorf e Thalgau,
Seekirchen e Koestendorf,
e sentono la sua voce
e si stringono
al suo tavolo,
che era anche il tavolo del signore.
Nel 1881, in primavera,
scelse la vita: piantò
una vite contro il muro di casa
e convocò i mendicanti;
sua moglie Maria, quella con il nastro nero,
gli diede in dono altri mille anni.
Inventò la musica dei maiali
e il fuoco dell'amarezza,
parlava del vento
e delle nozze dei morti.
A me non darebbe un pezzo di lardo
per le mie disperazioni.
Il mattino porta un grosso sacco.
Io gli dico: sei tanto vecchio da non dovermi disprezzare. Hai le scarpe lacere, la tua veste un tempo m'apparteneva —Sono seduto nel buco e t'attendo, non come la vecchia, non come i bambini, non come il prete che dopo la predica scende a prendere il vino e scambia la terra. Ti accolgo con la frusta, tremante, vile e fragile come un cardo al margine del sole.
Sono stanco...
Con gli alberi ho conversato.
Con le pecore ho patito la siccità.
Con gli uccelli ho cantato nei boschi.
Ho amato le ragazze del villaggio.
Ho alzato lo sguardo al sole.
Ho visto il mare.
Ho lavorato con i vasai.
Ho inghiottito la polvere sulla strada maestra.
Ho visto i fiori della malinconia nel campo di mio padre.
Ho visto la morte negli occhi del mio amico.
Ho allungato la mano verso le anime degli annegati.
Sono stanco...
1958Sotto il ferro della luna (Unter dem Eisen des Mondes, poesia); tr. e nota di Samir Thabet (Milano: Crocetti, 2015)
1959Le rose del deserto (Die Rosen der Einöde, libretto per balletto, voci e orchestra), Frankfurt am Main, 1959
1963Gelo (Frost); tr. Magda Olivetti (Torino: Einaudi, 1986):
« Un chirurgo affida a un suo studente un'insolita missione: dovrà studiare segretamente il comportamento di suo fratello, un anziano pittore che si è isolato dal mondo ritirandosi a Weng, un paesino d'alta montagna, buio e malinconico. Durante lunghe passeggiate attraverso un paesaggio pietrificato dal gelo, bellissimo e terribile, lo studente si smarrisce ben presto nel labirinto ossessivo dei monologhi del pittore in cui verità lancinanti sembrano brillare al di là della fitta trama di allucinazioni, manie, congetture filosofiche, deliri persecutori e memorie autobiografiche. Il romanzo è il progressivo coinvolgimento dello studente e del lettore nella visionaria psicosi del pittore e nella vita quotidiana del villaggio, i cui abitanti sono esemplari di una umanità priva di ogni possibile luce di redenzione. "Ho riletto 'Gelo' dopo parecchi anni. Con piú attenzione della prima volta, fermandomi spesso a pensare a Weng, il paese di montagna piú cupo che si possa immaginare, e ai suoi abitatori, la moglie dell'oste che gestisce quella locanda fredda e fuori mano, lo scuoiatore che fa anche il becchino, l'ingegnere che dirige i lavori della centrale elettrica in costruzione, e naturalmente Strauch, che riempie con i suoi infiniti discorsi, quasi un monologo ininterrotto, le fitte pagine del romanzo, l'esordio stupefacente di quel Thomas Bernhard che oggi tutti considerano una delle vette della narrativa contemporanea. Il documento di un divenir-folli? Non solo e non semplicemente, anche se la parola follia già di per sé dice tutto, e Bernhard comincia qui a darle una fisionomia speciale, che fa esplodere la cosa (chiamiamola cosí) in mille frammenti, tutte le tonalità del nero e insieme tutti i colori della realtà. Una preparazione alla morte? Ma in quella landa mortificata dai brividi del freddo c'è vita, e Strauch è il piú vivo di tutti." » (Dalla prefazione di Pier Aldo Rovatti)
1964Amras (Amras); tr. Magda Olivetti (Torino: Einaudi, 1989; Milano: SE, 2003, con una nota di Luigi Reitani):
« Segregati in una torre – al tempo stesso eremo mistico e simbolo della loro tradizione familiare – due fratelli vivono un tempo sospeso e dilazionato, dopo il suicidio dei genitori, cercando un impossibile approccio all'Assoluto. In questo bruciante racconto della maturità, Thomas Bernhard ha condensato con sapienza narrativa i motivi e i temi cardine del suo intero universo poetico. Quei suoni che provengono dalla strada, le figure ancora intraviste dalle tende tirate nell'incombente buio della sera, i libri di poesia ancora compulsati, i noti oggetti e volti quotidiani, percepiti in un istante che si avverte come estremo: tutto questo è evocato con un amore segreto e umanissimo, che restituisce alla vita tutta la sua aura sacrale. »
1967Prosa (Prosa, racconti), Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1967. Nel volume:
Attaché an der französischen Botschaft – Das Verbrechen eines Innsbrucker Kaufmannssohns – Der Zimmerer – Die Mütze – Jauregg – Zwei Erzieher
È una tragedia? È una commedia? (Ist es eine Komödie? Ist es eine Tragödie?), poi ripubblicato in Adelphiana, tr. Vittoria Rovelli Ruberl, 1971 e in aut aut, 325, 2005, pp. 17-21
1967Perturbamento (Verstörung), tr. e nota di Eugenio Bernardi (Milano: Adelphi, 1981):
« Un medico condotto della Stiria, accompagnato dal figlio, fa un giro di visite: insieme a loro, dalla prima frase fin oltre l'ultima, siamo presi in un "Perturbamento" che avvolge tutto come uno scirocco metafisico. Una vibrazione di malattia e di tristezza emana dalla psiche e dalla natura. La campagna, qui, è il luogo prediletto della brutalità: dal caldo opprimente dei fienili, dove i bmbini hanno paura di morire soffocati, al gelo segregato di un castello, a picco su una gola ostile alla luce: ovunque si percepisce un invito alla distruzione, un incoraggiamento all'ansia suicida. Le porte si aprono ogni volta su qualcosa di atroce: la moglie di un oste malmenata a morte, senza ragione, dagli avventori del locale; una vecchia maestra in agonia, con "il sorriso delle donne che si destano dal sonno sapendo di non avere più speranza"; una fila di uccelli esotici strangolati, perché i loro lamenti sono assordanti. In uno stile asciutto, protocollare, Bernhard elenca i relitti del dolore, finché la scansione inflessibile, martellante dei fatti lascia il posto all'immane delirio dell'ultimo infermo: il principe Saurau, raggelato da un eccesso di lucidità, scosso da un continuo frastuono nella testa, abbandonato ormai a una "micidiale tendenza al soliloquio". Nelle sue parole incessanti confluiscono e si dilatano i frammenti dell'orrore che già abbiamo traversato. Ma qui essi vengono scalzati dalla loro fissità e presi in un vortice, il moto perpetuo del "perturbamento". Bernhard ci conduce in un terribile viaggio nella solitudine e nella malattia: il solipsista industriale alla ricerca dell’ispirazione filosofica, immerso in un’ermetica misantropia dalla quale non esclude però la sorella, che é costretta quindi a vivere il dramma con lui, e che porterà entrambi alla rovina; l’artista ragazzo che in preda alla follia scarabocchia i ritratti dei grandi della musica classica, quando non legato al letto dalla madre e dai parenti a causa delle convulsioni; la signora Ebenhoh, straziata da una malattia mortale in completa solitudine alleviata di tanto in tanto da qualche libro (La principessa di Cleves) e da Schubert; il maestro costretto alla solitudine da un malinteso su un presunto crimine e condotto alla follia e alla malattia nel più miserevole disonore: tutti queste variazioni sul tema della solitudine e della malattia, nonché della sofferenza, sono uno stampo, un formante plastico per i personaggi che popoleranno i lavori seguenti di Bernhard e sfociano nella già citata figura del principe Sarau che li riassume tutti e li trascina in un vortice, causando un perturbamento, per l’appunto. » (Prefaz. Andrea Gussago)
1968Ungenach (Ungenach. Erzählung, romanzo breve); tr. Magda Olivetti (Torino: Einaudi, 1993)
1969Eventi (Ereignisse, racconti); tr. e nota di Luigi Reitani (Milano: SE, 1989):
« L'opera costituisce una tappa essenziale dell'itinerario poetico di Thomas Bernhard, all'interno del quale il lettore riconoscerà alcune costanti della sua opera: l'alienazione dell'individuo in una natura e in una società a lui estranee, la desolazione della provincia, la morte o la pazzia in fondo al vicolo cieco dell'esistenza. »
Il volume contiene [anche]:
♦ 1968Discorso in occasione del conferimento del Premio di Stato austriaco per la letteratura (Rende anläfllich der Verleihung des österreichischen Staatspreises für Literatur);
1969Al limite boschivo (An der Baumgrenze, racconto); tr. Enza Gini (in L'italiano, Parma: Guanda, 1981, pp. 45-55; poi ripubblicato come Al limite boschivo). Il volume Guanda contiene anche i racconti:
L'italiano. Frammento (Der Italiener. Fragment), già in «Insel-Almanach auf das Jahr 1965», Frankfurt am Main, 1964, pp. 83-93; poi in An der Baumgrenze. Erzählungen. Zeichnungen von Anton Lehmden, Salzburg, 1969; poi in Der Italiener, Salzburg, 1971 (con Notiz e Drei Tage). Base dell'omonimo film di Ferry Radax, nel 1972.
« I tre racconti presentati qui in unico volume fotografano l'unica follia senza scampo, quella della razionalità. "L'italiano", crudele indagine dietro le quinte di un funerale di campagna, oppone forestieri a forestieri; "Kulterer" rivela, in modo non dissimile, l'alienazione di un carcerato che non ha più carcere; "Al limite boschivo", vertiginosa allegoria, dichiara addirittura la reciproca vacuità della vita e della morte, che appaiono entrambe ridotte, in questo 'giallo' di montagna, a connotazioni casuali. E importante però intendere che non si tratta mai di invettiva, o di denuncia a carico della diserzione di Dio. Di pura cronaca, invece. Dove i fatti sono sempre operati dagli altri, e dove il cronista non sappiamo neppure se ci sia veramente. »
1970La fornace (Das Kalkwerk); tr. Magda Olivetti (Torino: Einaudi, 1984):
« La storia inizia con un delitto: Konrad, un agiato borghese discendente da una famiglia di possidenti stabilitosi nella fornace per la calce e i laterizi dei suoi avi trasformata in dimora, ha ucciso la moglie con una carabina Mannlicher e poi si è nascosto in un pozzo. Così lo trovano gli agenti della polizia e così lo arrestano. Da questa scena grottesca, Bernhard inizia la sua storia, quella di una coppia insidiosamente e simbioticamente legata, raccontata dalla gente del posto: i funzionari, i commercianti, gli spazzacamini, i pettegoli di Sicking, il paese austriaco dove si è svolto il dramma. Konrad è consumato dal suo compulsivo lavoro, un saggio che sta scrivendo e che, secondo lui, diverrà un pilastro e punto di riferimento definitivo per la scienza dell'udito. La moglie e sorellastra di Konrad, Zryd, una ex-bella donna costretta alla sedia a rotelle, è la vittima di Konrad e dei suoi ossessivi esperimenti (le bisbiglia una frase nell'orecchio migliaia di volte, esigendo impossibili gradi di percezione aurale). Zryd non sa stabilire se il marito sia un pazzo allucinato o un genio incompreso. Per tre decenni Konrad ha aspettato il momento ideale, la perfetta serie di circostanze tali da poter iniziare a scrivere il suo saggio. Ma non inizia mai e ora è anziano, sull'orlo della rovina finanziaria. Nel completo isolamento della vecchia fornace, al quale la coppia si è costretta, Konrad si sente continuamente distratto da eventi frutto delle sue allucinazioni e dalla fatica di dover assistere la moglie invalida: dandole da mangiare, leggendole ad alta voce passi del suo prediletto Enrico di Ofterdingen di Novalis, portandole il sidro dalla cantina nonché la voluminosa corrispondenza intrattenuta in passato con parenti, amici, conoscenti e domestici; provare le muffole che da anni Zryd fa a maglia e poi disfa per lui, curarle le otiti dovute ai continui esperimenti. La situazione di progressivo degrado della coppia, sia psicofisica che economica, culmina in un uxoricidio. Con una forza surrealista e agghiacciante, La fornace ci fa conoscere il complesso intrigato della creatività e dell'intraprendenza che la personalità distruttiva schiera contro di sé, labirinto psichico dove si scontrano mortalmente grande ambizione e persistente insicurezza. »
1971Midland in Stilfs. Drei Erzählungen, 3 racconti, Frankfurt am Main, 1971. Contiene:
Am Ortler. Nachricht aus Gomagoi; Midland in Stilfs; Der Wetterfleck
1970Camminare (Gehen, romanzo breve), Frankfurt am Main: 1971
1971Tre giorni (Drei Tage, racconto), tr. Anna Calligaris, in aut aut, 325, 2005, pp. 8-16
1975L'origine. Un accenno. Vol. I dell'Autobiografia (Die Ursache. Eine Andeutung); tr. Umberto Gandini (Milano: Adelphi, 1982):[2]
« In questo volume della sua biografia, Bernhard ha voluto subito raccontare un periodo della sua vita a cui risale il manifestarsi di una lesione insanabile in lui: i mesi passati durante la guerra nel Convitto nazionalsocialista di Salisburgo, fra macerie e angherie, e i mesi passati nello stesso collegio, ora chiamato Johanneum, e retto da sacerdoti cattolici, sempre fra angherie, all'inizio di una ottusa pace. Nell'intima compenetrazione salesburghese fra nazismo e cattolicità, nella vocazione della città al suicidio (una delle più alte percentuali europee) e all'Arte Universale, nella scuola come offesa permanente, nella capacità locale di cancellare la memoria e sovrapporre una nobile decorazione a un fondo putrido, Bernhard riconosce una costellazione atroce e beffarda alla quale da sempre ha tentato di sottrarsi: e qui la presenta e la ripercorre in pagine ossessive, implacate. Il piccolo Thomas Bernhard, al Convitto nazionalsocialista, suonava il violino nella "stanza delle scarpe", "piena zeppa di centinaia di scarpe dei suoi compagni intrise di sudore, accatastate su scaffali di legno marcio". Suonare il violino era per lui una preparazione al suicidio - e un modo di sfuggire al suicidio, concentrandosi nell'atto del suonare. Anni dopo sarà lo scrivere stesso, per Bernhard, una metodica esplorazione dell'orrore - e insieme l'unica mossa efficace per sfuggirgli. »
1975Correzione (Korrektur); tr. Giovanna Agabio (Torino: Einaudi, 1995):
« L'austriaco Roithamer, docente a Cambridge, in anni di febbrili progetti, costruisce per la sorella, l'unica persona da lui amata, un'abitazione a forma di cono in mezzo a un bosco. La risposta al regalo è la morte, il cono (rifugio, mausoleo, simbolo fallico, centro geometrico perfetto dell'esistenza e del pensiero) è destinato a scomparire risucchiato da una lussureggiante natura, eterna nemica. Tipica figura maniacale di Bernhard, Roithamer corregge all'infinito il suo progetto, lo corregge fino all'estrema autocorrezione: il suicidio. "Correzione" si dibatte tra amore e disprezzo, umanità e degrado, ipocrisia e violenza, malattia e morte in un crescendo che porta la follia alle soglie estreme di un'assoluta lucidità. »
1976Il loden. Racconti (Der Wetterfleck. Erzählungen); tr. e presentazione di Giulia Ferro Milone (Roma: Theoria, 1988)
1976La cantina. Una via di scampo. Vol. II dell'Autobiografia (Der Keller. Eine Entziehung); tr. Eugenio Bernardi: (Adelphi 1984)[2]
« Per abbandonare veramente il ginnasio di Salisburgo già descritto ne "L'origine", con la sua nefasta mistura di nazismo e pietà cattolica, il giovane Bernhard doveva scegliere qualcosa che fosse anzitutto, e in tutti i sensi, "nella direzione opposta", il punto più lontano possibile nella direzione opposta. Perciò abbandonare il centro di Salisburgo, dove le persone stesse sono "arte decorativa", e finire nel quartiere più malfamato e più sordido della città, i cui abitanti vengono spesso chiamati "feccia dell'umanità". E in quel quartiere fermarsi nel negozio dell'amabile signor Podlaha: una cantina adibita a spaccio di alimentari, sempre piena di clienti, di movimento, di cose da fare. Quel luogo, al centro dell'"anticamera dell'inferno", ha però qualcosa di oscuramente attraente: i clienti vi entrano anche senza ragione, trafficano con i bollini delle tessere annotarie, parlano della guerra e delle storie per lo più atroci che li riguardano, bevendo rum dalla bottiglia che hanno con sé. L'apprendista Bernhard li ascolta con attenzione vorace, attraverso di loro entra in molte vite, in molte case, spesso portando pesanti borse della spesa e chiacchierando nella lingua cruda e netta del luogo. Impara "a vivere in compagnia di molte persone fra loro diversissime", il suo dono di intenso osservatore si acuisce. Per lui tutto questo equivale, anche se ancora forse non lo sa, a una prima sortita in quello che sarà il suo territorio di scrittore: da quel quartiere che è la "macchia di sporcizia" nella nobile città di Salisburgo, e dall'umida cantina che è il suo centro segreto, si propaga una moltitudine di voci disparate, disadorne, stridenti, che Bernhard amorosamente raccoglierà nella sua prosa angolosa, martellante, obbedendo alla sua vocazione di "disturbatore della pubblica quiete". Così egli ha potuto scrivere che il periodo di apprendistato nel negozio di alimentari è stato il "più importante" della sua vita. »
1976Le celebrità (Die Berühmten), in Stücke, vol. 2
1978Il respiro. Una decisione. Vol. III dell'Autobiografia (Der Atem. Eine Entscheidung); tr. Anna Ruchat (Milano: Adelphi 1989):[2]
« Fra monache impazienti che i malati esalino l'ultimo respiro e cappellani ansiosi d'impartire l'estrema unzione, il diciottenne Bernhard, malato di pleurite, si trova in punto di morte nel reparto degli agonizzanti (il trapassatoio) in un ospedale di Salisburgo, unico giovane in mezzo a vecchi decrepiti che attorno a lui, uno dopo l'altro, cessano di respirare. È in quel luogo di orrori e in quel momento estremo che il ragazzo decide di vivere e inizia un difficile processo di guarigione, nonostante l'improvvisa morte del nonno, unico essere da lui amato al mondo, utopista e bonario despota che soleva ripetere al nipote: "È il corpo che obbedisce allo spirito e non viceversa". Ma è anche lo spirito che s'inventa le malattie: poiché "il malato è un veggente", esse sono indispensabili all'artista e soprattutto allo scrittore per affinarne intelletto e sentimenti. Nel "Respiro", parte dell'autobiografia, Bernhard ha ormai concluso il primo ciclo dei grandi romanzi della follia e dell'autodistruzione. Anche la prosa scorre qui quasi piana e discorsiva, rinunciando ai monumentali grovigli sintattici delle opere precedenti. Pur restando sempre ossessiva, ricca di impennate e di pathos. Fedele e scorrevole la bella traduzione di Anna Ruchat. »
1978L'imitatore di voci (Der Stimmenimitator, racconti); tr. Eugenio Bernardi (Milano: Adelphi 1987):
« Rare cose fanno sognare come quelle notizie di cronaca che racchiudono un destino in poche righe dettate in tono di spassionata neutralità. In questo libro Thomas Bernhard ha scelto come forma letteraria appunto la notizia di cronaca. Così troveremo qui più di cento romanzi in altrettante pagine. Prendendo di sorpresa il lettore, e sostituendo una guizzante velocità al martellio ossessivo dei suoi libri più celebri, Bernhard inanella una serie di storie esilaranti e oltraggiose, tutte enunciate da un cronista che si pretende di impeccabile sobrietà e precisione. I fatti innanzitutto - sembra dirci, con celato sarcasmo. E i fatti, nella loro nudità, riescono pur sempre a sbalordirci. Sono multiformi e coatti come il protagonista della storia che dà il titolo al libro: un imitatore di voci che riusciva a imitare ogni voce possibile ma rimaneva interdetto e si dichiarava incapace quando gli chiedevano di imitare la propria. »
1978Ja (Ja, romanzo breve); tr. Claudio Groff (Parma: Guanda 1983; poi ripubblicato come Sì sempre da Guanda):
« In un sonnolento villaggio austriaco, uno studioso di scienze naturali che vive da tempo in totale isolamento decide di confessare la propria "infermità psicoaffettiva" e di "rovesciar fuori" la parte interiore di sé. Con questa intenzione si reca a casa dell'amico Moritz, un agente immobiliare che, al contrario, vive a contatto quotidiano con gli altri. Proprio quando lo scienziato entra nel vivo delle sue confidenze, compare una coppia di clienti dell'amico: lui è un costruttore svizzero, lei è persiana. Fin dal primo istante la donna affascina l'intellettuale, che scopre in lei una degna compagna di passeggiate, conversazioni e disquisizioni filosofiche. A poco a poco la narrazione del loro incontro, condotta con straordinarie doti affabulatorie dallo scienziato, viene scoprendo un mondo di solitudini in cui l'atto esistenziale di maggior senso è quello della confessione. Ma non sempre l'autosvelamento produce un beneficio. Lo scienziato ne trae vantaggio: l'incontro con la donna lo rende di nuovo "avido di vita", e lo allontana dall'idea accarezzata del suicidio. Alla persiana non accade la stessa cosa: in fondo al suo tentativo di confessarsi c'è ben altra e più profonda solitudine. Il cui senso è racchiuso tutto nel suo ja, nel suo estremo, definitivo "sì". »
1979I racconti (Die Erzählungen)
1980I mangia-a-poco (Die Billigesser); tr. Eugenio Bernardi (Milano: Adelphi, 2000):
« Da una parte un uomo di pensiero che cerca caparbiamente, e invano, di riversare in un libro (un audacissimo trattato di fisiognomica) sedici anni di furiose riflessioni; dall'altra quattro personaggi dalle vicende ordinarie, legati fra loro solo dall'abitudine di pranzare insieme alla CPV (la Cucina Pubblica Viennese) scegliendo puntualmente il menù più economico. Fra questi due poli, come fra due diversi volti di un'unica entità che è la mania stessa - motore immobile dell'esistenza, cintura di salvataggio nel tentativo di sopravvivere - si intesse "I mangia a poco". Anche qui, come spesso in Bernhard, sarà lecito domandarsi se ci si trova in mezzo a una tragedia o a una commedia. Ciò che domina è comunque un'indagine maniacale – e spesso esilarante – della mania, a ogni suo livello, dall'infimo al supremo, vista come ultimo, disperato relitto di un grandioso tentativo di imporre un senso all'esistenza: un'esistenza mutilata, così come mutilato è il protagonista Koller, cui il morso di un cane ha inflitto una ben remunerata invalidità. E tutto questo perché l'uomo è in balia del caso, proprio come Koller, che un fatidico giorno - fausto ed insieme infausto - in un parco viennese, anziché andare automaticamente e come sempre verso il vecchio frassino, va verso la vecchia quercia, ribaltando così la sua esistenza e arrivando nel contempo al centro del proprio "filosofismo". »
1981Il freddo. Una segregazione. Vol. IV dell'Autobiografia (Die Kälte. Eine Isolation), tr. Anna Ruchat (Milano: Adelphi, 1991):[2]
«Il freddo racconta il periodo passato da Thomas Bernhard, fra i diciotto e i diciannove anni, nel sanatorio pubblico di Grafenhof. Ed è la storia di un'altra lotta durissima per la sopravvivenza, dove la malattia che assale il giovane Bernhard è al tempo stesso una malattia terribilmente fisica - legata a una specifica persecutorietà ambientale e sociale - e una malattia dell'anima, come già indica l'epigrafe di Novalis, che è la chiave del libro: "Ogni malattia può essere definita malattia dell'anima". In questa vicenda di un "inabissarsi" in una "comunità della morte", per poi riemergerne quando tutto sembra perduto, arricchito dalla scoperta che "la via dell'assurdo è la sola praticabile", e quasi salvato dalla musica (a cui allora contava di dedicarsi), Bernhard ci offre il penultimo, possente pannello della sua autobiografia, impresa solitaria e altissima della letteratura del nostro tempo. »
1981Ave Vergil (Ave Vergil, poesia); tr. e introduzione di Anna Maria Carpi (Parma: Guanda, 1991)
1982Un bambino. Vol. V dell'Autobiografia (Ein Kind); tr. Renata Colorni (Milano: Adelphi, 1994):[2]
« Bernhard scrisse per ultima questa parte dell'autobiografia che racconta i suoi primi anni, fino all'entrata nel collegio di Salisburgo. Ed è come se, tornando alle radici di angosce e orrori, egli raggiungesse uno stato di euforia, di leggerezza, di primordiale scoperta, altre volte celato o piegato alla lotta feroce con il mondo circostante. Qui tutto comincia con un bambino di otto anni che si getta in una sfrenata spedizione in bicicletta. "Sarebbe stato del tutto contrario alla mia natura scendere dalla bicicletta dopo qualche giro; come tutte le imprese che iniziavo, anche questa la spingevo fino all'estremo". In questo bambino che si lancia in bicicletta 'fino all'estremo' c'è già tutto Bernhard. Ma in una versione più ariosa, di elementare felicità. Aspetto che ritroveremo anche nei ritratti mirabilmente nitidi del nonno, della madre e degli amici d'infanzia. Tutte le torture che il mondo tiene in serbo già si intravedono, si presagiscono o irrompono sulla scena (siamo negli anni del nazismo e della guerra) - ma anche, con grande naturalezza, l'irresistibile meraviglia del bambino davanti a una tazza di cioccolata calda, quando i nonni lo portano con loro nel vasto mondo, a pochi chilometri da casa. »
1982Cemento (Beton), tr. Claudio Groff, con una nota di Luigi Reitani (Milano: SE, 1990):
« Per scrivere il suo studio su Mendelssohn Bartholdy, il narratore, Rudolf, ha bisogno di essere a casa propria, in campagna. Ha dunque atteso con impazienza la partenza della sorella, venuta a trascorrere qualche giorno con lui. Ma non era stato forse lui a invitarla, proprio perché non riusciva a mettersi al lavoro? Così, dopo la sua partenza, Rudolf non riesce ugualmente a scrivere. Avverte dovunque la presenza invadente di lei, sente il suo discorso protettivo, ironico, provocatorio... Rudolf penserà di sfuggirle intraprendendo un viaggio. Ma il suo soggiorno a Palma non farà che rianimare in lui il ricordo di un dramma di cui è stato testimone anni prima: un suicidio, un fatto di cronaca di desolante banalità. »
« Paul Wittgenstein, nipote del filosofo "il cui Tractatus logico-Philosophicus è ben noto in tutto il mondo scientifico e più ancora in tutto il mondo pseudoscientifico", fu per lunghi anni amico di Thomas Bernhard. Uomo sensibilissimo, inadatto al mondo, nutrito da una passione "esclusiva e spietata" per la musica, ma anche per l'automobilismo, dissipò con furia la sua fortuna sino a ridursi "per la maggior parte della sua vita" all'indigenza. "Partorito 'come un malato mentale'", convisse con questa malattia "fino alla morte con la massima naturalezza, così come gli altri vivono 'senza' una simile malattia mentale". Usava dire a Bernhard: "Duecento amici verranno al mio funerale e tu dovrai tenere un discorso sulla mia tomba". Quando Paul Wittgenstein morì, solo otto o nove persone andarono al suo funerale. In quel momento, Bernhard era a Creta. Ma, in certo modo, questo libro ha preso il posto di quel discorso che non venne mai pronunciato. Bernhard vi ha disegnato un ritratto delicato e terribile, spesso increspato da una selvaggia comicità. E insieme ha ritratto se stesso, come in un ulteriore frammento della sua autobiografia, sullo sfondo della Vienna inconsistente e ciarliera dei nostri anni. Agli estremi opposti dell'inermità e della forza, sussiste infatti una corrispondenza fra il narratore Bernhard e il suo amico, per lo meno nella "insana ferocia" nei confronti di se stessi "e di tutto". Corrispondenza che qui Bernhard spinge, come sempre, alle ultime conseguenze: "L'unica differenza tra Paul e me è che Paul si è lasciato 'completamente' dominare dalla sua pazzia, si è calato, se così si può dire, nella sua pazzia e io invece no, io non mi sono mai lasciato dominare completamente dalla mia pazzia..." »
1983Il soccombente (Der Untergeher), tr. Renata Colorni (Adelphi 1985):
« A un corso di Horowitz, a Salisburgo, si incontrano tre giovani pianisti. Due sono brillanti, promettenti. Ma il terzo è Glenn Gould: qualcuno che non brilla, non promette, perché 'è'. Una magistrale variazione romanzesca sul tema della grazia e dell'invidia, di Mozart e Salieri, ma ancor più sul tema terribile del 'non riuscire a essere'. Thomas Bernhard non si smentisce: padrone assoluto dei suoi mezzi espressivi, egli garantisce sempre un elevato livello letterario. E tuttavia corre da un po' di tempo il rischio di diventare epigono di se stesso. Il soccombente arricchisce il repertorio dei suoi personaggi votati a un inarrestabile processo di autodistruzione di una variante originale, grazie soprattutto a un elemento "documentario" appartenente alla recente storia musicale. Oltre a discorso funebre per un artista fallito, questo romanzo assurge anche a monumento celebrativo di un musicista incomparabile come Glenn Gould. L'incontro con lui durante un corso di Horowitz a Salisburgo nel lontano 1953, sarà infatti per il giovane pianista Wertheimer un "colpo mortale", come dice il narratore, pianista anche lui e anello di congiunzione di questa costellazione fatale. Wertheimer, dopo aver sentito suonare da Gould le "Variazioni Goldberg" di Bach sentirà per sempre l'incubo di questo modello. Dopo una lotta estenuante nel tentativo di eguagliarlo egli abbandona la carriera di pianista consumando il resto della sua vita in studi filosofici infruttuosi e nell'esercizio di un tirannico dominio sulla sorella. Quando ella riuscirà a sottrarglisi attraverso il matrimonio Wertheimer perderà definitivamente il suo equilibrio interiore. Non meno fulminato di Wertheimer dall'esperienza musicale fatta con Glenn Gould, è l'io narrante. Ma egli si sottrae al ruolo del più debole, destinato alla sconfitta. Il suo processo di ricostruzione della lenta autodistruzione dell'amico non è tuttavia condotto con la forza chiarificatrice dell'analisi psicologica. Quei pochi elementi ai quali egli riconduce la sua tragedia interiore entrano a far parte di un sapiente ed ossessivo gioco di variazione e ripetizione che attira il lettore in un vortice di cupa necessità. Del resto tutti i tre personaggi del romanzo hanno accettato la scommessa romantica sull'arte: la sua esigenza di assolutezza si rivela distruttiva per tutti i tre. Glenn Gould appare vittima di un bisogno di perfezione quasi disumana mentre sia Wertheimer che il narratore appaiono transfughi decaduti di una borghesia che porta in se stessa i germi della sua disgregazione. » (Prefaz. A.Reininger)
1984A colpi d'ascia. Un'irritazione (Holzfällen. Eine Erregung); tr. Agnese Grieco e Renata Colorni (Milano: Adelphi, 1990):
« Siamo a Vienna, negli Anni Ottanta. La sera c'è stata una rappresentazione dell'Anitra selvatica di Ibsen al Burgtheater. Segue una "cena artistica" a casa della coppia Auersberger, che il narratore non vede da vent'anni: lei cantante, lui "compositore nella scia di Webern", entrambi "signorilmente consunti". Tutto il romanzo è il resoconto di ciò che il narratore vede e ascolta, seduto nella sua poltrona in anticamera con una coppa di champagne in mano, e poi, seduto a tavola, durante questa serata: implacabile, ferocemente comico, inesauribile nelle variazioni e nei ritorni sul tema, Bernhard devasta con l'ascia della sua prosa il mondo della pretenziosità e dell'inconsistenza intellettuale, che non corrisponde solo a una certa scena viennese ma a ciò che circonda noi tutti. La "cena artistica" diventa così il condensato di tutte le "atrocità" da cui il narratore è riuscito a "mettersi in salvo" durante la sua vita, come se quell'incessante chiacchiericcio tentasse di impaniarlo di nuovo, ma con l'unico risultato di provocare un furioso desiderio di fuga, una corsa cieca, che finisce per coincidere con la scrittura martellante di 'questo' libro, che trafigge l'atrocità con la forma. E questa appunto è stata sempre l'arte di Bernhard. »
1985Antichi maestri (Alte Meister); tr. Anna Ruchat (Milano: Adelphi, 1992):
« Ogni due giorni, un vecchio signore si siede nella Sala Bordone della Pinacoteca di Vienna e guarda un celebre quadro di Tintoretto. Quell'uomo ha molto del genio, in un Paese che non tollera i geni ("Il genio e l'Austria non sono compatibili" leggeremo qui). Che cosa cerca? Qualcosa che non indovineremmo mai e che solo in un romanzo di Bernhard può diventare tema centrale: cerca i difetti dei capolavori ("Il tutto e il perfetto non li sopportiamo"). Quel vecchio signore, che conosce l'arte come nessuno - e ne trasmette i segreti a un guardiano del museo, devoto fino all'identificazione -, sa anche vedere la minaccia che si nasconde nell'arte, nella pretesa oppressiva del capolavoro. Nulla è più rischioso che osservare 'a fondo' un capolavoro. Tanto maggiore la gravità dello sguardo, tanto più squassante il riso convulso che ci coglierà mentre continuiamo a ripeterci certe celebrate parole, come se dietro il significato più alto si spalancasse ancora un vortice di insensatezza. Questa la donnée di "Antichi Maestri", uno dei romanzi ultimi di Thomas Bernhard (è apparso nel 1985), e anche uno dei libri dove egli si è spinto più in là, in una vera terra di nessuno fra l'arte e la vita, una terra abitata dalla lucidità, dalla disperazione, dal lutto per un amore perduto. Come in una confessione testamentaria, Bernhard parla non solo di ciò che la pittura - e la musica, la letteratura e la filosofia - sono, ma di ciò che non possono essere, non potranno mai essere: di quel punto in cui l'arte viene meno. Temi azzardati, ai quali il genio di Bernhard sa dare una prodigiosa immediatezza. Non solo: variando su di essi, egli riesce a inscenare, con verve sinistra e al tempo stesso liberatoria, quella che egli definisce, nel sottotitolo, una "commedia". »
1986Estinzione. Uno sfacelo (Auslöschung. Ein Zerfall); tr. Andreina Lavagetto (Milano: Adelphi, 1996):
« Ultimo tra i romanzi di Thomas Bernhard, Estinzione è anche quello dal respiro più vasto, dove l'orchestrazione sottile e ossessiva della sua prosa raggiunge l'esito supremo. Come se Bernhard avesse voluto riprendere, 'una volta per sempre', tutto ciò che aveva oscuramente nutrito la sua "arte dell'esagerazione". E già nel titolo si può avvertire tale furia liquidatoria. Dalla lontana specola di una Roma solare e felice, dove si è rifugiato per sottrarsi alla persecuzione, alla soffocazione familiare, il narratore getta uno sguardo esacerbato sulla tetra Wolfsegg, feudo avito nell'Austria superiore toccatogli in eredità in seguito all'improvvisa morte dei genitori e del fratello. "Roccaforte dell'ottusità", Wolfsegg è il luogo geometrico di quel "complesso dell'origine" che marchia a fuoco l'esistenza del protagonista. Stupidità del padre, incultura, ipocrisia della madre, supino opportunismo del fratello, beffardo disprezzo da parte delle sorelle, insofferenza per ciò che porta il segno dello spirito. Inoltre: complicità della famiglia con le SS, prima e dopo il Terzo Reich, in un inestricabile intreccio di risentimenti, di cattolicesimo bigotto e fanatico nazionalsocialismo: tutto questo significa l'origine. Come è possibile farne defluire il veleno? Anche il più drastico rifiuto finisce per innalzare fortezze e pinnacoli di parole che aspirano a sostituirsi, in una sorta di annientamento verbale, alla realtà dominante: "Perché il mio resoconto è lì solo per estinguere ciò che in esso viene descritto, per estinguere tutto ciò che intendo con Wolfsegg, e tutto ciò che Wolfsegg è, tutto". Ma Estinzione non sarebbe la meraviglia che è se non lo percorresse da cima a fondo quel gusto teatrale per il continuo rovesciamento ironico anche del gesto o della frase in apparenza più radicali e inappellabili.[3]»
1987Gedichte (antologia poetica), a cura di Christine Lavant, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1987
1989In alto. Tentativo di salvezza, nonsenso (In der Höhe. Rettungsversuch, Unsinn): scritto nel 1959, apparso nel 1989; frammento del romanzo incompleto Schwarzach St. Veit; tr. Elisabetta Niccolini (Parma: Guanda, 1990); publ. (EN) On the Mountain, trad. R. Stockman, 1991 Quartet Books:
« Basato su elementi autobiografici che costituiscono un tipo di visione enciclopedica del mondo di Bernhard, il romanzo è scritto in un'unica lunga frase, monologo espresso da un reporter di tribunale che incontra una serie di personaggi che o gli elergiscono favori o lo maltrattano e umiliano. Pubblicato postumo subito dopo la sua morte, In alto rappresenta una specie di "autoritratto dell'artista da giovane" in vena schopenhaueriana, ed il suo tono misantropico e umorismo desolato anticipano veramente tutta l'opera bernhardiana successiva. »
1991Gesammelte Gedichte, a cura di Volker Bohn, cioè: Auf der Erde und in der Hölle (1957), In hora mortis (1958), Unter dem Eisen des Mondes (1958), Die Irren. Die Häftkinge (1962), Ave Virgil (1981), Frost (1991), Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1991;
1991Un incontro. Conversazioni con Krista Fleishmann (Eine Begegnung. Gespräche mit Krista Fleischmann); tr. Alessandra Rovagnati, nota di Luigi Reitani (Milano: SE, 2003);
1989Conversazioni (Gespräche mit Thomas Bernhard), a cura di Kurt Hofmann; tr. Elisabetta Niccolini (Parma: Guanda, 1989)
1992Von einer Katastrophe in die andere. 13 Gespräche mit Thomas Bernhard, a cura di S. Dreissinger, Weitra, 1992;
1993, Gemma Salem (a cura di), Thomas Bernhard et les siens, Paris: Gallimard, 2005 (incontri, testimonianze e interviste con chi l'ha conosciuto e frequentato);
1994Thomas Bernhard – Karl Ignaz Hennetmair. Lettere 1965-1974 (Thomas Bernhard – Karl Ignaz Hennetmair. Ein Briefwechsel 1965-1974);
2003Werke in 22 Bänden, a cura di Wendelin Schmidt-Dengler, Martin Huber, Renate Langer, Manfred Mittermayer e Jean-Marie Winkler, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 2003-09 - cioè: I. Frost (2003); II. Verstörung (2003); III. Das Kalkwerk (2004); IV. Korrektur (2005); V. Beton (2006); VI. Der Untergeher (2006); VII. Holzfällen (2007); VIII. Alte Meister (2008?); IX. Auslöschung (2008); X. Autobiographie (2004); XI. In der Höhe. Amras. Der Italiener. Der Kurlturer (2004); XII. Ungenach. Wate. Gehen (2006); XIII. Erzählungen III (2008); XIV. Erzählungen. Kurzprosa (2003); XV. Dramen I (2004); XVI. Dramen II (2005); XVII. Dramen III (2008); XVIII. Dramen IV (2007); XIX. Dramen V (2008); XX. Dramen VI (2009); XXI. Gedichte (2008); XXII. Der öffentliche Berhard (2009).
2006Thomas Bernhard e la musica, (Carocci):
« L'opera di Thomas Bernhard (1931-1989) è ormai nota anche in Italia, dove ha trovato un gran numero di attenti e appassionati lettori. Il volume vuole contribuire alla conoscenza di questo scrittore austriaco, studiandone uno degli aspetti più avvincenti, il suo rapporto con la musica. Musicale è infatti la sua scrittura e innumerevoli allusioni a motivi musicali si ritrovano nei suoi romanzi e lavori teatrali. Attraverso un approccio trasversale di grande fascino e suggestione, con questo volume anche il lettore non specialista può così avvicinarsi a uno scrittore tra i più significativi del Novecento. A cura di Luigi Maritani. »
2009Meine Preise (I miei premi, Adelphi, 2009), pubblicato postumo da Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main; trad. (EN) My Prizes. An Accounting pubbl. 2011 da Notting Hill Editions, con prefazione di Frances Wilson.
« Memoriale mordente del contesto e circostanze in cui vennero assegnati a Thomas Bernhard nove premi letterari, tra il 1963 e il 1980, seguito da alcuni discorsi fatti in quelle occasioni. Ne risulta un autoritratto dell'artista come applaudito vincitore di premi e premiato farceur: sardonico, pungente, distruttivo, che si gusta ironicamente il mondo letterario e se stesso con amaro divertimento. Epigrafe alla Prefazione, una sua poesia: Am Zeil:[4] Non riesco a capire Perché hanno applaudito Stiamo parlando di un dramma Che li mette alla gogna, tutti E nel modo più cattivo Finanche con umorismo Ma un umorismo maligno Se non pure malizia Vera malizia E tutt'a un tratto applaudono»
« Supremamente ottuso è per Bernhard il mondo dei premi letterari, di cui traccia un ritratto insieme crudele e divertentissimo, senza risparmiare frecciate a nessuno, neanche a se stesso: "Tutto era repellente, ma più repellente di tutto trovavo me stesso" dice a proposito del premio Franz Theodor Csokor. Al grottesco balletto prendono parte stolidi largitori e beneficati vanesi; ministre che russano durante i panegirici per poi risvegliarsi di botto sbraitando imperiose: "Ma dove si è cacciato il nostro scrittorello?"; conferitori di attestati e di prebende che, scambiando il sesso dei poeti laureandi, parlano con disinvoltura della "signora Bernhard"; politici opportunisti e di abissale ignoranza preoccupati solo di fare passerella; giurie letterarie insipienti ma ben liete di trasferirsi, spesate di tutto, nei migliori alberghi e ristoranti; finanziatori che con un esborso spudoratamente basso si assicurano pubblicità a buon mercato e una fama di generosi mecenati; e grossolani esponenti dell’industria che presentandolo parlano diffusamente dello "straniero nato in Olanda", il quale però "già da qualche tempo vive tra noi", e al quale attribuiscono senza fare una piega un fantomatico romanzo ambientato in un’isola del Sud. "Se qualcuno offre del denaro vuol dire che ne ha ed è giusto alleggerirlo" pensa tuttavia Bernhard, e non nega affatto di averlo speso volentieri, soprattutto se gli ha dato l’occasione per comprarsi finalmente una Triumph Herald.[5]»
1970Una festa per Boris (Ein Fest für Boris): prima rappresentazione allo Schauspielhaus di Amburgo; regia di Claus Peymann; con Judith Holzmeister; tr. Roberto Menin (in Teatro I, Milano: Ubulibri, 1982: Torino: Einaudi, 2015).
1974La brigata dei cacciatori (Die Jagdgesellschaft): prima rappresentazione al Burgtheater di Vienna; regia di Claus Peymann, scenografia di Herrmann; con Judith Holzmeister, Joachim Bißmeier, Werner Hinz; tr. Italo Alighiero Chiusano (in Teatro II, Milano: Ubulibri, 1984: Torino: Einaudi, 2015).
1974La forza dell'abitudine (Die Macht der Gewohnheit): prima rappresentazione al Salzburger Festspiel; regia di Dieter Dorn, scenografie di Wilfried Minks; con Bernhard Minetti, Anita Lochner; tr. Umberto Gandini (in Teatro I, Milano: Ubulibri, 1982: Torino: Einaudi, 2015).
1975Il presidente (Der Präsident); tr. Eugenio Bernardi (in Teatro V, Milano: Ubulibri, 2004);
1977Minetti. Ritratto di un artista da vecchio (Minetti. Ein Portrait des Künstlers als alter Mann): prima rappresentazione al Württembergischer Staatstheater di Stoccarda; regia di Claus Peymann, scenografia di Herrmann; con Bernhard Minetti nel ruolo del protagonista; tr. Umberto Gandini (in Teatro II Ubulibri 1984: Torino: Einaudi, 2015);
1978Immanuel Kant (Immanuel Kant); tr. Umberto Gandini (in Teatro IV, Milano: Ubulibri, 1999);
1979Il riformatore del mondo (Der Weltverbesserer): prima rappresentazione allo Schauspielhaus di Bochum; regia di Claus Peymann, scenografia Herrmann; con Bernhard Minetti, Edith Heerdegen); tr. Roberto Menin (in Teatro I, Milano: Ubulibri, 1982: Torino: Einaudi, 2015);
1979Prima della pensione. Una commedia dell'anima tedesca (Vor dem Ruhestand. Eine Komödie von deutscher Seele); tr. Roberto Menin (in Teatro IV, Milano: Ubulibri, 1999);
1981Su tutte le cime la pace (Über allen Gipfeln ist Ruh): prima rappresentazione allo Schauspielhaus di Bochum; regia di Alfred Kirchner; con Traugott Buhre;
1981Alla meta (Am Ziel): prima rappresentazione al Salzburger Festspiel; regia di Claus Peymann, scenografia di Herrmann; con Marianne Hoppe; tr. Eugenio Bernardi (in Teatro II, Milano: Ubulibri, 1984: Torino: Einaudi, 2015);
1983L'apparenza inganna (Der Schein trügt): prima rappresentazione allo Schauspielhaus di Bochum; regia di Claus Peymann, scene di Erich Wonder; con Bernhard Minetti; tr. Roberto Menin (in Teatro III, Milano: Ubulibri, 1991);
1984Il teatrante (Der Theatermacher): prima rappresentazione al Salzburger Festspiel 1985; regia di Claus Peymann, scene di Herrmann; con Traugott Buhre, Hugo Lindinger, Kirsten Dene, Martin Schwab, Josefin Platt; più tardi riproposto nei medesimi ruoli e nella medesima veste allo Schauspielhaus di Bochum e al Burgtheater (1986); dopo la morte di Lindigers, con Sepp Bierbichler nel ruolo dell'oste; tr. Umberto Gandini (in Teatro V, Milano: Ubulibri, 2004);
1986Semplicemente complicato (Einfach kompliziert). Prima rappresentazione al Schillertheater di Berlino; con Bernhard Minetti. Più tardi riproposto all’Akademietheater; tr. Umberto Gandini (in Teatro III, Milano: Ubulibri, 1991);
1987Elisabetta II (Elisabeth II): prima rappresentazione al Schillertheater; con Kurt Meisel; tr. Umberto Gandini (in Teatro V, Milano: Ubulibri, 2004);
1988A Doda - Alles oder nichts - Eis, FreispruchMaiandacht. Ein Volksstück als wahre Begebenheit [Meiner Kindheitsstadt Traunstein gewidmet] - Match - Der deutsche Mittagstisch, in Der deutsche Mittagstisch. Dramolette, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1988
1988Piazza degli eroi (Heldenplatz): prima rappresentazione al Burgtheater; regia di Claus Peymann, scene di Herrmann Beil; con Wolfgang Gasser, Kirsten Dene, Elisabeth Rath, Marianne Hoppe; tr. e prefazione di Rolando Zorzi (Milano: Garzanti, 1992):
« Austria, 1988. Per la famiglia Schuster – intellettuale, ebrea, Viennese nel profondo – il Paese rimane invivibile come lo era quando fuggì nel 1938. Quarant'anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, odio irrazionale, nevrosi e decadenza regnano ancora. In Heldenplatz, ultimo dramma di Thomas Bernhard, l'autore esplora l'isolamento condiviso di persone che hanno perso i propri punti di riferimento insieme alla maggior parte delle proprie illusioni. »
1990Claus Peymann compra un paio di pantaloni e viene con me a mangiare, e altri dramoletti (Claus Peymann kauft sich eine Hose und geht mit mir essen. Drei Dramolette), cioè: Claus Peymann verläßt Bochum und geht als Burgtheaterdirektor nach Wien (1986), Claus Peymann kauft sich eine Hose und geht mit mir essen (1986) e Claus Peymann und Hermann Beil auf der Sulzwiese (1987); tr. Elisabetta Niccolini (Milano: Ubulibri, 1990);
1950Das rote Licht (con lo pseudonimo Thomas Fabian), in «Salzburger Volksblatt», 19-06-1950;
1950Vor eines Dichters Grab (con lo pseudonimo Nikklas van Heerlen), in «Salzburger Volksblatt», 12-07-1950;
1951Die Siedler (con lo pseudonimo Thomas Fabian), in «Salzburger Volksblatt», 8-09-1951;
1952Mein Weltenstück, in «Münchner Merkur», 22-04-1952 (poi in Die ganze Welt in meines Herzens Enge. Anthologie junger Salzburger Lyrik, Salzburg, 1955, pp. 58-63);
1953Das große Hunger in «Demokratisches Volksblatt», 15-10-1953;
1953Die verrückte Magdalena, in «Demokratisches Volksblatt», 17-01-1953;
1953Sieben Tannen die die Welt bedeuten, in «Demokratisches Volksblatt», 24-12-1953;
1954'Betagte Landschaft - Die Landschaft der Mutter - Kreuzgang im Kloster Nonnberg - Sankt Sebastian in der Linzer Gasse, in «Handschreiben der Stifterbibliotek», 13, 1954;
1954Großer, unbegreiflicher Hunger - Biographische Notiz, in Hans Weigel (a cura di), Stimmen der Gegenwart, Wien, 1954, p. 259;
1954Das Augustiner-Bräustübl - Dorotheum - Nacht in Salzburg - Rund um Mozart, in Josef Kaut (a cura di), Salzburg von A-Z, Salzburg, 1954;
1954Firedhof in Seekirchen - Im Dom - Im Hofe von St. Peter - Salzburg, in «Die Furche», 31-07-1954;
1955Am Abend - Aufzuwachen und ein Haus zu haben... - Heimkehr, - Lied der Magd, Mein Weltenstück - Pfarrgarten in Henndorf, in Die ganze Welt in meines Herzens Enge. Anthologie junger Salzburger Lyrik, Salzburg, 1955, pp. 58-63;
1956Das Jahr ist wie das Jahr vor tausend Jahren, in «Wort in der Zeit», 6, 1956, p. 34 e segg.;
1956Der Schweinehüter, in Hans Weigel (a cura di), «Stimmen der Gegenwart», Wien und München, 1956, pp. 158-79;
1956Die Dörfler - Mein Vater, in «Stillere Heimat», a cura del Kulturamt der Stadt Linz, Innsbruck, 1956, p. 78 e segg.;
1956Im Gras - Immer fragen sie nach mir, in «Wort in der Zeit», 6, 1956, p. 34 e segg.;
1961An W. H. - Buern - Grenadiere - Großmächtiges Tabernakel des Windes - RoßhändlerSchützt michZerfressener Apri, in Neue Gedichte, «Wort in der Zeit», 7, 1961, pp. 20-22, poi in Gerhard Fritsch (a cura di), Frage und Formel. Gedichte einer jungen österreichischen Generation, Salzburg, 1963, pp. 86–97;
1961In der Bibel - Mir ist der Mond zu schad, in Lyrik aus dieser Zeit, München e Esslingen, 1961, p. 75 e p. 104;
1962Eine Strophe für Padraic Colum - Geburtstagsode - Im Tal - Krieger - Morgen, in Weinen über trostlose Tage (fünf Gedichte), in «Wort in der Zeit», 8, 1962, pp. 29-31;
1962I folli. Gli sfollati (Die Irren. Die Häftlinge), Klagenfurt, 1952; anche in Gerhard Fritsch (a cura di), Frage und Formel. Gedichte einer jungen österreichischen Generation, Salzburg, 1963, pp. 86-97;
1962Beschreibung einer Familie - Eine Ursache für John Donne - Erinnerung an die tote MutterIn silva salus - Jetzt im Frühling - Kein Baum - Kitzlochklamm - SchmerzZwei Bierflaschen und der Eisstock, in Gerhard Fritsch (a cura di), Frage und Formel. Gedichte einer jungen österreichischen Generation, Salzburg, 1963, pp. 86-97;
1964Ein Frühling, in «Spektrum des Geistes», 13, 1964, p. 36;
1964Eine Zeugenaussage, in «Wort in der Zeit», X, 6, 1964, pp. 38-43;
1965Ein junger Schriftsteller, in «Wort in der Zeit», XI, 1-2, 1965, pp. 56-59;
1965Zorn, in Hans-Geert Falkenberg (a cura di), Die sieben Todsünden. Vierzehn Essays, München, 1965, pp. 159-64;
1965Mit der Klarheit nimmt die Kälte zu, in «Jahresring». 65/66, Stuttgart. 1965, pp. 243-45;
1966Politische Morgenandacht in «Wort in der Zeit», 12, 1966, pp. 11-13;
1966Viktor Halbnarr - Una fiaba invernale (Viktor Halbnarr – Ein Wintermärchen), in Vin Dichter erzählen Kindern, Köln, 1966, pp. 250-56;
1968Der Wahrheit und dem Tod auf der Spur. Zwei Reden - Unsterblichkeit ist unmöglich, in «Neues Forum», XV, 173, 1968, pp. 347-49;
1970Nie und mit nichts fertig werden, in «Jahrbuch der Deutschen Akademie für Sprache und Dichtung Darmstadt», 1970, pp. 83 e segg.;
1970Der Berg. Ein Spiel für Marionetten als Menschen oder Menschen als Marionetten, in «Literatur und Kritik», 5, 1970, pp. 330-52;
1975Bernhard Minetti (Brief an Henning Rischbieter), in «Theater heute», 1975, p. 38;
1976Lettera aperta (Leserbrief); tr. it e presentazione di Micaela Latini (in "Cultura tedesca", 30, 2006, pp. 178-179);
1978Der deutsche Mittagstisch. Eine Tragödie für ein Burgtheatergastspiel in Deutschland, in «Die Zeit», 29-12-1978;
1978Die Kleinbürger auf der Heuchelleiter, in «Programmbuch 34», Württembergische Staatstheater di Stuttgart, stagione 1977/78, pp. 26-28;
1982Verfolgungswahn, in «Die Zeit», 11-01-1982;
1982Ein Antwortbrief, in Jochen Jung (a cura di), Mein(e) Feind(e), «Literaturalmanach», Salzburg, 1982, p. 28;
1982Conversazione con l'autore, a cura di Andé Müller, in Teatro I, Milano: Ubulibri, 1982;
1982Montaigne (Montaigne. Eine Erzählung in 22 Fortsetzungen), in «Die Zeit», 8-10-1982; tr. Pierfrancesco Fiorato, in «Nuova corrente», XLVII, 127, 2001, pp. 7-17;
1982Goethe muore (Goethe schtirbt)[6], in «Die Zeit», 19-03-1982; tr. Micaela Latini, in «Almanacchi nuovi», 1, 1999, pp. 116-28; poi in aut aut, 325, 2005, pp. 22-31; (poi trad. di Elisabetta Dell'Anna Ciancia in "Piccola Biblioteca Adelphi", 2013, ISBN 9788845927591). La Suhrkamp Verlag Berlin nell'edizione del 2010[7] raccoglie quattro racconti di Thomas Bernhard inizialmente pubblicati il 19 marzo 1982 su Die Zeit e successivamente pubblicati in un unico volume in lingua italiana dalla casa editrice Adelphi di cui supra.[8]
♦ Incipit — Primo racconto, Goethe muore(L'intero racconto è disponibile online su LATHE BIOSAS).:
« La mattina del ventidue Riemer mi raccomandò, nell'imminenza della mia visita a Goethe fissata per l'una e mezzo, di parlare per un verso sottovoce, per l'altro tuttavia non troppo sottovoce nel rivolgermi all'uomo che ormai si diceva semplicemente fosse il più grande della nazione e nel contempo anche, a tutt'oggi, il più grande in assoluto fra i tedeschi mai esistiti, certe cose egli infatti le udirebbe adesso con una chiarezza che addirittura sgomentava, altre invece non le udirebbe quasi più del tutto e non si sapeva quali udisse e quali no, e benché nel conversare con il Genio che giaceva più o meno immobile nel suo letto di morte, con lo sguardo sempre rivolto alla finestra, la cosa più difficile fosse davvero dare il giusto volume di voce ai propri discorsi, era tuttavia possibile, in primo luogo aguzzando al massimo i sensi, trovare in quella conversazione di fatto ormai sempre più soltanto fonte di tristezza, la giusta via di mezzo che si confaceva al grande spirito adesso palesemente giunto alla fine. » (Goethe muore, trad. dal tedesco di Elisabetta Dell'Anna Ciancia)
Nota:L'ultimo scritto da Bernhard poco prima della morte è dedicato alla Tramvia di Gmunden (Straßenbahn Gmunden): una feroce lettera al Salzkammergut-Zeitung contro la soppressione della linea tramviaria di Gmunden, che con i suoi 2,3 km è la più breve del mondo.
Das war Thomas Bernhard. Fernsehdokumente 1967–1988. Documentario, Austria, 1994, 50 min., scritto e diretto da: Krista Fleischmann, Produzione: ORF, (DE)Sommario su 3sat.
Thomas Bernhard. Die Kunstnaturkatastrophe. Eine Topographie. Documentario, Germania, 2010, 52 min., scritto e diretto da: Norbert Beilharz, Produzione: Eikon Südwest, WDR, arte, Prima trasmissione: 7 febbraio 2011 da arte, (DE)Sommario su ARD con Daniel Kehlmann e Stefan Hunstein.
Thomas Bernhard. Eine Herausforderung. Monologe auf Mallorca. Un ritratto – documentario di Krista Fleischmann. ORF, 1981.
Thomas Bernhard. Ein Widerspruch. Die Ursache bin ich selbst. Un ritratto – documentario di Krista Fleischmann a Madrid. ORF, 1986.
Thomas Bernhard – Drei Tage (Thomas Bernhard – Tre Giorni). Un film di Ferry Radax, basato su un autoritratto scritto da Thomas Bernhard, 1970.
Der Italiener (L'italiano). Un film di Ferry Radax, basato sulla storia omonima di Thomas Bernhard, 1970.
frusciano tutta la notte intorno al mio capo:
la gelida onda dell’eternità
ingoierà forse
l’aurea effigie dell’uomo.
Contro orridi scogli
si sfracella il corpo purpureo.
Ed è un lagno la voce opaca sul mare.
Sorella di burrascosa tristezza,
vedi: una barca angosciata affonda
sotto le stelle,
tacito volto della notte.
Schlaf und Tod, die düstern Adler
Umrauschen nachtlang dieses Haupt: Des Menschen goldnes Bildnis Verschlänge die eisige Woge Der Ewigkeit. An schaurigen Riffen Zerschellt der purpurne Leib. Und es klagt die dunkle Stimme Über dem Meer. Schwester stürmischer Schwermut Sich ein ängstlicher Kahn versinkt Under Sternen, Dem schweigenden Antlitz der Nacht. (Georg Trakl)
Sleep and death, the dusky eagles
Rustle all night round my head:
the golden effigy of man
consumed by the icy tides
of eternity. On hideous rocks
the purpling body shatters.
And the dark voice mourns
over the sea.
Sister of my wild despair,
look: a lonely skiff is sinking
under the stars,
the silent face of night.
« Vi sono titoli che suonano come un congedo dal mondo. È forse per questo che Thomas Bernhard ha lasciato il manoscritto di "Estinzione" per qualche tempo nel cassetto, prima di pubblicarlo nel 1986, quando il suo paese eleggeva, tra lacerazioni e polemiche, Kurt Waldheim a presidente della Repubblica, scoprendone contemporaneamente il passato di ufficiale nei ranghi della Wehrmacht. Tre anni dopo Bernhard moriva al termine di una lunga e dolorosa malattia, che risaliva alla tubercolosi della giovinezza. Sebbene non sia il suo ultimo romanzo dal punto di vista della stesura (lo è "A colpi d'ascia", Adelphi, 1990), Estinzione è così l'ultimo romanzo pubblicato in vita dall'autore, e anche per questa ragione è stato letto come una sorta di suo estremo testamento poetico (su cui già esiste un'ampia letteratura, per la quale si rimanda a un bel volume curato da Hans Höller e Irene Heidelberg-Leonard: "Antiautobiographie. Thomas Bernhards "Auslöschung"", Suhrkamp).
Il protagonista e narratore di Estinzione apprende da un telegramma la notizia della morte dei propri genitori e del fratello maggiore. Inaspettatamente Franz Josef Murau, che conduce a Roma una forma di esistenza artistico-filosofica, si ritrova così a essere l'erede di un immenso patrimonio, concentrato in un castello dell'Austria Superiore, a Wolfsegg. La famiglia, la patria, le origini, dalle quali ha sempre cercato di sfuggire, lo risucchiano in una spirale senza fine di meditazioni e ricordi.
Per oltre trecento pagine le riflessioni di Murau muovono da tre fotografie che ritraggono i suoi familiari. In queste pagine non accade pressoché nulla: il narratore si sposta dalla scrivania alla finestra, guarda le fotografie e le dispone in sempre nuove combinazioni. Si tratta, sul piano della tecnica narrativa, di uno straordinario pezzo di bravura. Non è però un virtuosismo fine a se stesso. La coscienza si confronta qui con le immagini (falsificate) del mondo: un'eco, forse, di "Immagine e coscienza" di Jean-Paul Sartre. Nella "Camera chiara" (dedicato appunto a questo libro di Sartre), Roland Barthes aveva del resto scritto che "in ogni foto c'è quella cosa vagamente spaventosa che è il ritorno del morto". Un'affermazione che sembra calzare perfettamente per la situazione narrativa di Estinzione: attraverso le foto il passato ritorna nella coscienza del protagonista.
Anche questo romanzo di Bernhard si presenta dunque - come già "Correzione" (Einaudi, 1995) o "Il Soccombente" (Adelphi, 1987) - come un processo di "elaborazione del lutto", condotto in una forma radicale. Ma al posto di un narratore che riflette sulla morte di una figura a lui speculare o affine, vi è questa volta un personaggio che medita sulla propria condizione di figlio e di erede. Il lutto investe dunque i rapporti familiari e la critica non potrebbe essere più dura. Murau ritrae suo padre come un opportunista compromesso col nazismo, prigioniero di un'ottusa mentalità burocratica; il fratello maggiore come un uomo precocemente inaridito, condannato a seguire le orme del padre, con il solo estro delle macchine da corsa. Ma gli strali più feroci si appuntano sulla madre, quintessenza dell'incultura, del mondo dell'utile e del denaro, interessata alla sola mondanità, amante di un alto prelato romano. Sono loro, i genitori e il fratello, a rendere Wolfsegg, che pure - si dice - è immersa in uno dei paesaggi più belli dell'Austria, un inferno per il giovane Murau.
Per il narratore Wolfsegg rappresenta dunque il mondo angusto e asfittico delle convenzioni, dell'utile, della burocrazia, il luogo in cui la storia del Novecento (e mai come in questo romanzo la storia dell'Austria è così presente in Bernhard) ha minacciato di schiacciare inesorabilmente l'Io. O almeno una parte di Wolfsegg, giacché Murau sembra distinguere tra esperienze dolorose e ricordi positivi. Decisiva, in questo senso, appare la figura dello zio Georg, che inizia il nipote all'arte e alla letteratura, indicandogli con il proprio esempio un modello alternativo di comportamento rispetto all'ottusità dei genitori. Nel romanzo di Bernhard, infatti, a Wolfsegg si contrappone l'esistenza libera di Murau a Roma. Nella città italiana Murau stringe intorno a sé rapporti affettivi che sembrano specularmente contrapporsi alla costellazione familiare. La genealogia patriarcale è qui sostituita da una sorta di anti-famiglia liberamente scelta. Al posto della madre troviamo ad esempio la poetessa Maria, in cui palesemente rivive la figura (e il mito) di Ingeborg Bachmann. Ma il rapporto più significativo tra le amicizie romane di Murau è quello con l'allievo Gambetti, a cui il narratore insegna il tedesco. C'è, insomma, qualcosa di utopico in "Estinzione", sottolineato dal finale, in cui l'intera proprietà di Wolfsegg viene donata alla comunità israelitica di Vienna. Un'utopia, ad ogni modo, radicale e distruttiva, che annienta lo stesso protagonista e che è comunque soverchiata dal risentimento e dall'odio verso il luogo delle origini.
Bernhard, tuttavia, non sarebbe Bernhard se questa critica, così accanita e incalzante, non si trasformasse in un ritmo vertiginoso di parole dal respiro musicale (magnificamente reso da Andreina Lavagetto), in un'aria cantabile, la cui leggerezza contrasta con il carattere greve e cupo delle affermazioni; ed è lo stesso ritmo, il meccanismo inesorabile, spiraliforme, delle iperboli e dei superlativi, a conferire alla narrazione l'inconfondibile "vis comica" propria dei testi dell'autore. L'esagerazione sfocia nel grottesco, la tragedia lascia il posto alla commedia. E spesso nel testo si ode una lunga risata liberatoria. "Tutto è ridicolo, di fronte alla morte", aveva scritto Bernhard, e pochi altri autori del nostro tempo hanno mostrato quanto siano labili i confini che separano il tragico dal comico. » (L. Reitani)