Academia.edu no longer supports Internet Explorer.
To browse Academia.edu and the wider internet faster and more securely, please take a few seconds to upgrade your browser.
2020, Medioevo, 279 (2020), pp. 12-16
…
5 pages
1 file
La necropoli di età romana di Lovere (BG). Una comunità sulle sponde del Sebino, 2024
gli unici che ci permettono di identificare la forma, genericamente Is. 82b1, e più in particolare DT 71/72 e DT 43 6 , sono databili nella seconda metà del I sec. d.C. (tav. I, 1-5). Frammenti di piccoli orli svasati e con bordo solo ingrossato o ripiegati a cordoncino non ci permettono di risalire a una forma, anche se i primi sono da attribuire a oggetti di piccole dimensioni, mentre gli altri, che hanno diametri intorno a 3 cm, potrebbero essere pertinenti a esemplari più grandi. Alcune pareti o frammenti bruciati in vetro di colori intensi, blu e giallo ambra (t. 40, US 166; t. 56, US 281; t. 64; t. 119 blu con gocce bianche) richiamano esemplari globulari o piriformi (genericamente tipi Is. 6, 26) (fig. ). Nonostante le colorazioni, non si tratta di oggetti di pregio, ma di prodotti piuttosto correnti, realizzati in grandi quantità per il commercio al minuto di essenze destinate alle funzioni rituali, e spesso monouso. Sono anche tra gli oggetti vitrei più antichi attestati nel sito in quanto diffusi tra l'età augustea e l'età neroniana 7 . Forse una piccola costolatura rimane sul frammento blu della t. 64 (forma Is. 26) (fig. ). Infine, le rugosità presenti sul frammento deformato della t. 40, US 166 (da contesto precedente la sepoltura) (fig. ), apparentemente non dovute al fuoco, potrebbero indicare un esemplare soffiato a stampo in forma di dattero (forma Is. 78d), contenitori di I sec. d.C. che si ipotizza fossero prodotti sulla costa fenicia per commercializzare qualche olio profumato, forse ricavato proprio dal frutto rappresentato 8 . Il piccolo ammasso fuso di colore blu e bianco opachi dalla stessa US 166 rientra tra le pochissime testimonianze di vetro policromo (fig. ). La forma Is. 16, quasi una bottiglia, databile tra secondo quarto e fine del I sec. d.C., è rappresentata da frammenti, tra cui parte del collo con spalla sfuggente, in vetro azzurro chiaro, dalla t. 64 (tav. II, 1), e da un esemplare di dimensioni più piccole, da US 496 (t. 114). Tra gli esemplari di dimensioni maggiori ha un posto di rilievo il pezzo facente parte del corredo della t. 3 (tav. II, 2), riferibile alla forma Is. 82b2/DT 31: alto 18,8 cm, presenta ventre campaniforme, senza strozzatura alla base del lungo collo; sul fondo, concavo per l'impressione dello stampo, si identifica un bollo a rilievo, anepigrafo, con un motivo fitomorfo, costituito da un ramo di palma (?) tra volute (figg. 4-5). Le due inferiori si dipartono dalla base del ramo, due a C uniscono le volute inferiori con la cima del ramo, sormontate da altre due accoppiate, meno leggibili sono altre poste all'esterno di questa composizione, anche per la posizione leggermente decentrata dell'impressione rispetto al fondo. Come evidenzia Luigi Taborelli 9 , la composizione delle volute "disposte specularmente" ai lati dell'elemento fitomorfo centrale ha l'esito di evidenziare tale elemento, nel quale si deve probabilmente vedere la stilizzazione di una particolare essenza vegetale, legata forse all'aroma contenuto nel vaso. Si tratta di un bollo già conosciuto, attestato in diverse località sia della Transpadana occidentale (Torino 10 e Pollenzo (CN) 11 ) sia dell'area gardesana (Arco (TN) 12 e Mezzariva di Bardolino (VR) 13 ); a Cavriana (MN) 14 e a Verona, necropoli di Porta Palio 15 ; la segnalazione più meridionale è a Urbino 16 . Un esemplare è noto anche nel Nord Renania-Westfalia 17 . Questa forma di balsamari si afferma nella seconda metà del II -inizi III sec. soprattutto in Italia centro-settentrionale; la presenza su alcuni di essi dei marchi VEC(TIGAL) MONOPOLIUM P(ATRIMONI) IMP(ERATORIS) CAES(ARIS) M(ARCI) ANTONINI disposto attorno al monogramma RAVENNA e PATRIMONI [F(ISCI)] RATIONIS/REG(IONIS) RAVEN(NATIUM), sembra testimoniare una produzione nel territorio ravennate, probabilmente in relazione alla presenza di fondi di proprietà imperiale -at-6 Per i riferimenti tipologici cfr.
2015
a cura di Elisa Cairati e Anna Pasolini L'immagine della finestra è di per sé complessa ed evocativa: un'apertura che si affaccia su due spazi, non sempre mettendoli in comunicazione; se chiusa, a seconda della trasparenza della superficie che la caratterizza, incornicia la vista di ciò che sta oltre, ma talvolta la impedisce, o ne rende i contorni sfocati, imprecisi, addirittura confusi. La finestra è linea di confine, limite, apertura o filtro tra due mondi -o all'interno dello stesso mondo -barriera o fessura tra un "dentro" e un "fuori", ma anche filtro e veicolo dello sguardo, più o meno diretto, che tra queste due realtà si sposta. Proprio per questa complessità semantica, per la sua portata evocativa, la finestra si è prestata e continua a prestarsi in maniera particolare alla rappresentazione, a farsi tema, metafora, simbolo in arte e letteratura, e allo stesso tempo a diventare chiave di lettura, strumento interpretativo, sguardo più o meno autorevole e affidabile tanto sulla realtà quanto su mondi riflessi e immaginari, in varia misura trasparente o mediato a seconda dell'opacità della superficie, occasione di apertura e scambio o di chiusura e confinamento tra lingue, culture, memorie, identità.
KOS, 2005
In torno alla metà del I secolo a.C. alcuni artigiani mediorientali, combinando l'uso di due tecniche metallurgiche antichissime, perfezionarono un modo rivoluzionario di produrre il vetro. Fin dal XV secolo a.C., in effetti, la canna da soffio per alimentare il fuoco e la fornace per fondere i metalli erano due strumenti ben conosciuti dagli artigiani e orefici egiziani. Con la prima si controllava l'azione del fuoco e attraverso la seconda si otteneva una pasta metallica fusa facilmente lavorabile. Il vetro era un materiale ben conosciuto anche dagli egizi, ma l'impossibilità di costruire fornaci capaci di raggiungere temperature superiori ai 1000°C non aveva permesso di lavorare la materia fusa, limitando così notevolmente le varietà e le dimensioni degli oggetti che si potevano ottenere. Nonostante questi limiti, superati solo con l'introduzione della tecnica della soffiatura, il vetro esercitò un enorme fascino ed è difficile pensare a un altro materiale capace di giocare un ruolo così vario. A partire dal I secolo a.C., di vetro o di pasta vitrea erano molte decorazioni architettoniche, i mosaici parietali, la fritta per produrre alcuni colori per la pittura a fresco, in particolare l'azzurro e il blu egizio, le finestre per illuminare gli spazi interni degli edifici, le lucerne, i drappeggi, gli ornamenti e alcune parti anatomiche di molte sculture in marmo e pietra, il vasellame da mensa, gli acquari, gli ornamenti, le imitazioni delle pietre e gemme più preziose, le urne cinerarie e, forse, i sarcofagi di uomini illustri, gli unguentari, i balsamari, le lastre utilizzate per la costruzione di serre, i recipienti per la conservazione degli alimenti, strumenti e recipienti alchemici di varie fogge e funzioni, alcuni strumenti ottici per lo studio dei fenomeni della riflessione e della rifrazione, le coppette usate dai medici per la suzione degli umori e del sangue e, infine, gli specchi, sia quelli utilizzati per la cosmesi che quelli ustori. Inoltre il vetro, più dei metalli, poteva assumere qualsiasi colore e una straordinaria lucentezza, qualità quest'ultima che, accompagnata dalla possibilità tecnica di rendere il materiale lavorato perfettamente trasparente, superava i limiti imposti dalle lavorazioni dei metalli e delle pietre. Plinio (Naturalis Historia, XXXVI, 68) prestò la massima attenzione alle tecniche e, alla fine del capitolo dedicato al vetro, esaltando le molteplici e sospendenti qualità del fuoco, suggerì di collocare l'arte vetraria insieme a tutte quelle arti che, grazie all'ingegno, erano finalizzate all'imitazione della natura. Il lungo elenco delle proprietà del fuoco e la consapevolezza manifestata da Plinio di come, grazie all'uso sapiente di questo elemento, si possa trasformare la materia a piacimento, investendo la manipolazione e il dominio del più potente dei quattro elementi, non è, come si voluto spesso intendere, una semplice eco della filosofia Eraclitea, bensì un tentativo di collocare l'arte vetraria in un ambito disciplinare che non è quello del semplice artigianato. Si tratta ovviamente della chimica o dell'alchimia, una disciplina che ai tempi di Plinio poteva già contare su una autorevole tradizione e che, come vedremo, era ben conosciuta dal naturalista latino. Le tecniche antiche, infatti, non sono riconducibili esclusivamente ai progressi empirici che si realizzarono nei mestieri artigianali e nelle officine dei vetrai, ma anche, e in misura rilevante, alle ricerche condotte da parte di alcune categorie di studiosi per estenderne e perfezionarne l'uso in contesti apparentemente lontani dalla vita quotidiana. Esplorando il vetro dal punto di vista della storia della scienza e della tecnica, è legittimo domandarsi se gli antichi, in particolare i greci, non abbiano lasciato qualche testimonianza significativa circa la classificazione scientifica del vetro e la sua funzione in vari ambiti dell'attività
A.Magni, G. Tassinari, “Eracle di vetro”. Lo studio delle gemme e delle paste vitree e un ospite gradito a Verona, in Comitato Nazionale Italiano AIHV, XVIII Giornate Nazionali di Studio sul Vetro, Vetro e alimentazione, Pavia, 16-17 maggio 2015, Atti a cura di S. Ciappi, M.G. Diani, M. Uboldi, Cremona 2017, pp. 253-257
Il tema del progetto di un gioiello in vetro per gli studenti del corso di Design al triennio dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, molti dei quali al primo anno, poteva rivelarsi un brief insormontabile, anche perché era richiesta la concretizzazione fisica del manufatto.
LANX. Rivista della Scuola di Specializzazione in …, 2009
Lo specchio presentato in questa sede proviene dalla tomba 1709, finora inedita, della necropoli di età ellenistico-romana del Calvario, in località Monterozzi, a Tarquinia, individuata e scavata dalla Fondazione Carlo Maurilio Lerici tra il 1968 e il 1970 2 .
2014
La vera vita è altrove», ha scritto Rimbaud, ma questo altrove è accanto a noi, a un millimetro da dove ci troviamo, ma parallelo al nostro sguardo. O retrostante. E ciò che è parallelo al nostro sguardo o retrostante non è visibile: per percepirlo ci vuole uno sguardo obliquo, o «gli occhi sulla nuca» come in Cortázar. Non so se egli sia un microscopio o un binocolo girato al contrario: spesso le due cose insieme […] e ciò crea un inedito Unheimlich, un iper-perturbante. Antonio Tabucchi, Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema
Una paternità discussa
Ne scaturí una dibattuta expertise internazionale circa la sua ancora non del tutto risolta attribuzione a Leonardo da Vinci, che tuttavia non impedí alla tavola d'essere offerta in vendita a New York, dalla casa d'aste Chtistie's, il 15 novembre 2017, ed essere aggiudicata per poco piú di 450 milioni di dollari.
Riflessi (ed enigmi) in una sfera di vetro ICONOGRAFIA • La tavola raffigurante il Cristo come Salvator Mundi ha fatto parlare di sé per l'astronomica cifra alla quale è stata venduta. Ma l'opera, attribuita a Leonardo da Vinci, solleva piú di un interrogativo intrigante...
Sulle due pagine Salvator Mundi, olio su tavola attribuito a Leonardo da Vinci. 1499 circa. Collezione privata. Nel particolare (qui sopra) il globo in vetro retto dal Cristo nella mano sinistra la cui presenza, in questo caso, potrebbe non essere la semplice citazione di uno strumento scientifico, ma alludere all'unitarietà della creazione divina. Una cifra che, a oggi, è la piú alta mai pagata per un dipinto. Nello scorso dicembre, sulla scorta di tali presupposti, un gruppo di ricerca dell'Università di Irvine, Los Angeles, California (UCLA) ha tentato di dimostrare, con una ricostruzione digitale, come il magnetico globo nella mano del Salvator Mundi non sia in calcite, come ipotizzato in precedenza, bensí vitreo, avente una superficie spessa poco piú di 1 cm, e riempito d'acqua: si tratterebbe, pertanto, di una peculiare lente sferica, utilizzata fin dall'evo antico per migliorare la visione. Simili strumenti ottici erano sicuramente noti e delle loro proprietà era ben consapevole Leonardo, il quale ne cita, tra i suoi appunti, anche una derivazione di sua invenzione: un apparato utilizzato come sistema di illuminazione, un prototipo di lampada a olio, che egli stesso aveva messo a punto durante il soggiorno milanese presso la corte di Ludovico (1250 circa-dopo il 1310). Che queste sfere fossero piuttosto comuni sembrano suggerirlo alcune righe del De remediis utriusque fortunae di Francesco Petrarca (1304-1374), ove, trattando della senescenza, l'autore cita il già menzionato passaggio di Seneca, tratto dal I libro delle Naturales questiones, sull'uso di globi che ingrandiscono oggetti e scritte il Moro. Doveva trattarsi di una sfera riempita d'acqua, che, grazie alla superficie esterna convessa, era in grado di diffondere la luce prodotta dallo stoppino posto in un cilindro all'interno dello stesso globo, che fungeva da lente d'ingrandimento. Ripercorrendo la storia di questa varietà di globo, Lucio Anneo Seneca (attivo nel I secolo d.C.), rifacendosi probabilmente a Pitagora (VI secolo a.C.) e/o Archimede (287-212 a.C.), riporta e dimostra il suo uso assai comune nelle Naturales Questiones (Lib. I, 6.5): «Ho già detto che ci sono specchi che aumentano ogni oggetto che riflettono. Aggiungo che tutto è molto piú grande quando lo guardi attraverso l'acqua. Le lettere, per quanto minuscole e oscure, sono viste piú grandi e chiaramente attraverso una palla piena d'acqua». Questo strumento non va però confuso con un altro, citato da Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella Naturalis Historia: qui, infatti, il riferimento è a globi vitrei incandescenti per cauterizzare le ferite e viene altresí sottolineato come il vetro potesse sopportare il calore in quanto riempito con acqua (Lib. XXXVII, 10).